Intervista a Fabio Pirola, co-founder del capitolo italiano del metodo Usa che punta tutto su personalizzazione, competenze e passione
Innovazione e scuola: dovrebbero essere due parole che si tengono per mano, ma spesso in Italia (e non solo) non va così. Così l’innovazione emerge con un modello “bottom up”, dove sono gli insegnanti che decidono di prendere le redini della situazione ed impegnarsi in prima persona per cambiare. Dopotutto lo diceva l’architetto ed inventore Buckminster Fuller: “Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda obsoleto il modello esistente”. L’entusiasmo che traspare dalle parole di Fabio Pirola, co-founder di Big Picture Learning Italia, è contagioso: “Possiamo potenziare la parte tecnologica fin quando abbiamo voglia, ma se non potenziamo quella umana, non facciamo molta strada”. Insieme a Chiara Jorioz sono i portavoce di un gruppo di docenti che crede in un nuovo modello di educazione che da pochi mesi, con una classe di 12 ragazzi, è alla sua prima sperimentazione in Italia. Fabio ha un’esperienza di 7 anni come insegnante di religione nelle scuole medie e superiori, tra cui anche le scuole medie di Mosso (già alle cronache nazionali per il sostegno civico dei ragazzi all’Isola di Budelli). È inoltre team leader della squadra femminile del Biella Rugby.
L’idea di Big Picture Learning nasce negli USA e dal 1995 ad oggi conta ben 65 scuole negli Stati Uniti, oltre ad un network che si espande in Olanda, Israele, Nuova Zelanda, Australia, Canada ed ora anche Italia. Nel corso degli anni è giunto un sostegno all’iniziativa da più parti, compresa la The Bill and Melinda Gates Foundation. Nel frattempo Elliot Washor è stato selezionato tra i migliori 12 educatori al mondo dalla George Lucas Educational Foundation. Il board che ora dirige l’organizzazione è d’eccellenza, al suo interno oltre a manager provenienti dalle Fortune 500 (ossia le più importanti aziende al mondo), vi è anche Dale Dougherty vale a dire l’ideatore della Maker Faire.
Da dove nasce questa esigenza di sviluppare Big Picture Learning Italia?
«Insegnavo, ma non ero soddisfatto della situazione, così ho cercato modelli alternativi ed ho deciso di pensare ed agire in maniera laterale.
In fondo non stavo cercando una scuola, ma cosa potesse far funzionare una scuola.
Lessi, nel 2012, “Drive” di Daniel Pink: il libro parla della motivazione e il punto è tutto lì, cioè riuscire a motivare gli studenti. Come fa una persona a impegnarsi per fare qualcosa? Tutto sta nell’essere interessati, appassionati. Vedevo ragazzi con enormi potenzialità che però non venivano sviluppate. Si poteva fare di meglio e si poteva fare di più. Così scoprii il modello Big Picture Learning, scrissi ai fondatori e riuscii a fissare un incontro via Skype con Dennis Littky e Elliot Washor, collegatisi da Rhode Island con Biella».
Da dove avete cominciato?
«Prendiamo la nostra “classe beta” (partita in autunno 2016, ndr): ci troviamo in SellaLab, abbiamo quindi sede nell’acceleratore di imprese del Gruppo Banca Sella. Questo è eccezionale: si crea un rapporto di continuo scambio coi coworker, l’ambiente può essere distraente, ma diventa molto più stimolante. Si creano collaborazioni con le aziende più facilmente, da noi infatti è fortissima la rilevanza dell’alternanza scuola-lavoro. Ogni 3 mesi c’è un exhibition dove viene esposto pubblicamente ciò che si è imparato: i valutatori più precisi son proprio i compagni».
Come funziona praticamente?
«Tutto è programmato su Google Calendar e gli insegnanti fissano le loro lezioni a seconda delle necessità didattiche dei ragazzi. Lavoriamo con strumenti di condivisione attualmente usati abitualmente dalle aziende, come Slack. Abbiamo un advisor che è costante riferimento per i ragazzi. Prevediamo di fornire un attestato da baccalaureato internazionale, vale a dire un diploma riconosciuto in 80 Stati nel mondo, l’intenzione è inoltre quella di arrivare a ridurre gli anni necessari per il percorso di studi superiori a 4 invece che 5».
In cosa consiste Big Picture Learning?
«Si tratta di una filosofia basata su 3 elementi: rilevanza, relazione e rigore. Bisogna quindi proporre delle attività che vadano a toccare le passioni e gli interessi dei ragazzi, serve trovare il punto di contatto con loro stimolando le loro attitudini.
Un approccio diverso dalla scuola a cui siamo abituati, dove invece si parte da libri predefiniti per tutti.
Non abbiamo sacrificato i contenuti della scuola italiana, ma partiamo dagli interessi dei ragazzi che sono al centro della nostra scuola. Per noi è importante la parola “competenza” cioè che come studente tu sappia manipolare le cose, non basta saperle. Abbiamo introdotto le abilità professionali e le abilità di vita, cioè le skill di cui le aziende hanno disperatamente bisogno e di cui, soprattutto, abbiamo bisogno tutti noi nella nostra vita personale. Vogliamo fare innovazione sociale, non solo innovazione didattica. I genitori e i ragazzi partecipano insieme alle decisioni della scuola in modo reale. E’ inutile dare la democrazia in mano ai ragazzi a 18 anni se prima non gli abbiamo fatto decidere niente».
Facciamo un passo indietro. Com’è stata “importata” in Italia questa filosofia?
«E’ stato innanzitutto un investimento personale, iniziato nel 2013 quando ho impegnato 4 mesi di formazione tra settembre e dicembre tra la Met School di Providence (Rhode Island, USA) e i Big Bang, eventi dell’organizzazione tenutisi a Las Vegas. Volevo toccare con mano, non mi bastava sapere come funzionava. Tutto è quindi iniziato con un progetto europeo, nell’ambito del Bando Leonardo, tra Città Studi di Biella e l’Olanda per la formazione degli insegnanti ai principi di questa filosofia didattica che è decisamente Open Source. Nel settembre 2014 è stata perciò fondata l’associazione alla presenza di Elliot Washor, fino ad arrivare all’apertura della “classe beta” sul finire del 2016».
Quali sono le principali differenze rispetto ai “classici” modelli educativi delle scuole italiane?
«E’ un cambiamento di paradigma, si passa dall’apprendimento passivo a quello attivo. Stimoliamo i ragazzi all’intraprendenza: devono essere loro a costruirsi una propria metodologia di apprendimento.
La personalizzazione è un elemento cardine.
La scuola italiana sino ad ora ha seguito un modello industriale: è stato un gran bene per diffondere ampiamente la cultura, ma nè più nè meno degli altri modelli di massa oggi è superato, mentre diventa sempre più importante lavorare sulla personalizzazione e serve perciò un ulteriore passo qualitativo per il potenziamento del singolo individuo. Per questo la relazione con gli studenti è fondamentale.
Come hanno risposto le famiglie e quali sono le aspettative di questa prima sperimentazione?
«Le famiglie sono le più entusiaste e coi ragazzi sta andando bene, ma non ci basta mai. Abbiamo messo un’asticella altissima: per saltare in alto bisogna essere allenati bene, nel modo corretto e soprattutto facendosi amare nell’insegnare. Non è facile. Le nostre aspettative son quelle di vedere i ragazzi crescere e artefici del proprio destino, vedere che imparano a costruire le proprie attitudini per il futuro. L’aspirazione è quella di continuare questa avventura con sempre più scuole e studenti».