Il sociale sta assumendo rilevanza nella value chain delle imprese e superando così le colonne d’Ercole della responsabilità sociale. A che punto siamo?
Quale paese è storicamente caratterizzato dalla presenza di un Terzo settore di natura produttiva? Quale nazione ha economie e welfare fortemente ancorati ad imprese mutualistiche? Quale paese è stato in grado, nel tempo, di dare vita a nuove forme organizzative/imprenditoriali ibride tanto nel mondo for profit quanto in quello non profit? La risposta corretta è: l’Italia.
L’Italia è storicamente un paese ad alta intensità di imprenditorialità sociale: infatti, con la legge n. 381, l’Italia ha introdotto già nel 1991 le cooperative sociali, la prima forma di imprenditorialità sociale che si è sviluppata nel nostro paese e che oggi continua a percorrere il suo terreno di sviluppo anche integrando la propria offerta di servizi con gli strumenti tecnologici a disposizione che permettono di aumentare l’impatto del loro operato. Inoltre, grazie alla riforma sull’impresa sociale (d. lgs. n. 112/2017) è stata riconosciuta la biodiversità di modelli che possono legislativamente e operativamente essere applicati per svolgere attività imprenditoriali nell’ambito sociale. La qualifica di impresa sociale, istituzionalizza la dimensione ibrida dell’impresa, infatti, può essere accostata sia a forme giuridiche non profit, quali associazione e fondazione, sia a forme giuridiche for profit, come le società a responsabilità limitata e le società per azioni, nonché alla forma giuridica cooperativa.
Il sociale sta assumendo rilevanza nella value chain delle imprese e superando così le colonne d’Ercole della responsabilità sociale. Il valore è l’esito di una “conversazione” che nasce dall’incontro tra la dimensione economica, sociale e ambientale. Il tema della competitività si genera, quindi, nella convergenza fra la socialità (intesa come senso e fine dell’azione) e l’imprenditorialità. Questa integrazione del sociale, in tutte le sue forme, nella dimensione imprenditoriale sta creando una nuova generazione di istituzioni: una terra di mezzo popolata da “imprese intenzionalmente sociali” e da “non profit intenzionalmente imprenditoriali”. Ecco perché, per analizzare il potenziale di imprenditorialità sociale in Italia, che ricomprende ma non coincide con il bacino dell’impresa sociale, è necessario dilatare il campo di osservazione, ricomprendendo all’interno del concetto una pluralità di forme giuridiche/categorie organizzative che pongono il sociale come asset strategico rispetto al proprio agire e vanno dal for profit al non profit, passando dal mutualismo.
Volendo calcolare il potenziale bacino del social business in Italia, oltre alle imprese sociali ex lege, quindi, e alle cooperative sociali, per ottenere una stima del potenziale di imprenditorialità sociale in Italia è necessario includere anche le organizzazioni non profit cd. “market oriented”, le imprese for profit operanti nei settori di attività delle imprese sociali, le start up innovative a vocazione sociale e le società benefit (tabella 1).
Le Startup innovative a valore sociale
In particolare, le startup innovative a vocazione sociale (SIAVS) (d. l. n. 179/2012) sono startup innovative che operano in via esclusiva nei settori indicati dal d.lgs. n. 155/2006: peculiarità di questi soggetti imprenditoriali è la valutazione di impatto sociale delle proprie attività in fase di iscrizione all’apposito registro (in una logica, quindi, ex ante). Le società benefit, invece, sono una nuova forma giuridica di impresa (l. n. 208/2015) chiamata a perseguire – all’interno dell’attività economica – uno o più effetti positivi o ridurre gli effetti negativi su una o più categorie di soggetti.
Comune denominatore delle diverse forme appena elencate è il perseguimento della produzione di valore aggiunto sociale, attraverso modelli di business sostenibili e inclusivi. Una nuova generazione d’imprese che sperimentano nuove combinazione di attività imprenditoriali caratterizzate da elementi d’innovazione volti ad ottenere un forte impatto in termini di cambiamento sociale. Un processo d’ibridazione inarrestabile che tende a ricombinare l’esistente superando le classiche visioni verticali: profit/non profit, pubblico/privato, imprenditoriale/sociale.
È il caso di Arca Lavoro, che si è trasformata nel 2018 passando da una forma associativa ad impresa sociale Srl per creare nuove opportunità di lavoro attraverso attività di trasloco e svuota cantine su tutto il territorio modenese; di Job4u, startup innovativa a vocazione sociale in forma di Srl che attraverso la piattaforma Jobiri fornisce orientamento, trova offerte lavorative, costruisce e analizza automaticamente curriculum e lettere di motivazione ed “allena” i candidati ai colloqui sfruttando gli strumenti di intelligenza artificiale; di Boboto Srl società benefit, nata all’interno del FabLab di Lecce, che promuove l’educazione come processo continuo di apprendimento attività orientate al mondo dell’educazione quale strumento di inclusività e di innovazione sociale, attraverso lo sviluppo di due progetti principali: Montessori3D e Coding e pensiero computazionale.
Una popolazione di “imprese ibride” che generano valore legandolo all’occupazione e che necessitano di un ecosistema “ad hoc” (finanza, capacity e tecnologia) per scalare e progredire. Bisogna superare perciò il riduzionismo che vede l’impresa sociale come soggetto meramente redistributivo, rilanciando la dimensione “sociale” nel cuore delle scelte economiche, tecnologiche e di coesione dell’Europa. Nel prossimo settennato (2021-2027) l’Europa sarà chiamata a fare scelte che impatteranno sulle future generazioni. Per l’Italia diventa perciò fondamentale costruire una strategia per valorizzare il proprio bacino d’imprese sociali in Europa, candidandosi a diventare una “Social Enterprise Nation”.