Un elenco dei premi che non ha vinto, delle mancate pubblicazioni e dei finanziamenti che non ha avuto. Il cv dei fallimenti di un prof di Princeton è un esperimento che dice che qualche scivolone nella vita non è la fine del mondo. Anzi
Chi di noi non ha mai fallito? Chi, in un modo o nell’altro, non si è visto chiudere una porta in faccia, non ha superato un esame, non è stato preso per un lavoro, non si è visto superare da qualcuno? Il fallimento è un elemento con cui tutti ci siamo dovuti, prima o dopo, confrontare. E’ naturale, fa parte del gioco. Eppure tendiamo a nasconderlo, a dare di noi stessi l’immagine di persone di successo e mettiamo in evidenza solo i nostri risultati positivi. Quando scriviamo un curriculum inseriamo le nostre lauree, i premi vinti, le posizioni prestigiose occupate, persino gli aspetti positivi del carattere. Mai raccontiamo delle nostre esperienze negative. Ha provato a farlo, un po’ per gioco e un po’ per studio, Johannes Haushofers, professore di psicologia all’università di Princeton. Ha scritto un lungo elenco dei suoi fallimenti in ambito accademico, ordinati in sezioni ben specifiche: “corsi ai quali non ho avuto accesso”, “insegnamenti che non ho ottenuto”, “premi e borse di studio che non ho vinto”, “rifiuto di pubblicazione dei miei articoli scientifici” e “fondi per la ricerca che non ho ottenuto”.
Un cv pieno di insuccessi
La provocazione di Haushofers offre degli spunti interessanti. Come spiega lui stesso nell’introduzione del suo curriculum, le persone sono convinte di fallire per colpe proprie e vivono queste sconfitte con una sensazione di vergogna, senza rendersi conto che è una condizione nella quale si trovano tutti, spesso per motivi che non dipendono da loro: «Ci dimentichiamo che il mondo è basato sulle probabilità, che i metodi di selezione possono essere sbagliati e che le commissioni esaminatrici possono avere una giornata storta».
Non sempre, quindi, è colpa nostra: fallire è statisticamente molto probabile.
C’è un luogo in particolare in cui il fallimento è considerato la chiave del successo: la Silicon Valley. “Fail fast”, “Fallisci velocemente” è il motto di chi lavora nella più importanti aziende di informatica del mondo.
Fail fast
Se devi fallire, questo il concetto, sbrigati a farlo e riparti subito con un’altra idea. E’ la filosofia che ha portato tanti al successo. Persone che ammiriamo, che prendiamo come esempio, che hanno fallito e che sono ripartite, fino a trovare la propria strada. Persone che vorremmo essere. Sono loro stessi a raccontare le proprie esperienze di vita. Ingegneri, inventori, informatici, scrittori: tutti sono passati da percorsi accidentati che però, alla fine, li hanno portati a fare qualcosa di grande. Basta seguire qualche TED conference per rendersi conto di come il fallimento sia stata una costante nella carriera di queste persone: Astro Teller di Google X, Elizabeth Gilbert, autrice di “Mangia, prega, ama”, Kathryn Schulz, giornalista del New Yorker, Larry Smith dell’università di Waterloo (a proposito di fallimenti…) in Canada. Tutti passati dal fallimento, tappa obbligata verso la grandezza. Ci sono persino delle ricerche secondo le quali gli studenti che hanno conosciuto i patimenti subiti dai grandi della scienza studino molto più volentieri materie ostiche come la fisica o la matematica.
Lo scivolone ci fa correre più veloci
La morale di fondo è chiara: non arrendersi mai, vivere il sogno, cavalcare i fallimenti verso l’orizzonte della gloria finale. Queste storie rendono gli insuccessi quasi affascinanti, scene di un film che creano empatia tra protagonista e spettatore fino al climax finale in cui il nostro eroe vince. Conosciamo così le sconfitte che portano alla vittoria finale, ma non sentiamo mai le storie di chi aggiunge sconfitte ad altre sconfitte, di chi tutti i giorni si confronta con frustrazione e disappunto. Ma dopo tutto, sbagliare rimane la chiave del successo, anche a costo di risultati paradossali. Aggiornando il suo cv Haushofers ha scritto: «Questa versione del curriculum, piena di fallimenti, ha ricevuto molta più attenzione del mio lavoro accademico di una vita».