Negli ultimi tre decenni il paesaggio mediatico e l’offerta giornalistica hanno conosciuto cambiamenti radicali. Per i nostri longform domenicali ospitiamo il giornalista Giorgio Zanchini con un estratto del suo nuovo libro “La cultura nei media – Dalla carta stampata alla frammentazione digitale”, edito da Carocci editore
Nel mondo predigitale, in un territorio in cui la trasmissione di informazioni di interesse pubblico era deputata soltanto a giornali e riviste, ai quali successivamente si sono aggiunte la televisione e la radio. L’andamento sarà cronologico, si descriverà cioè l’evoluzione della carta stampata e poi di televisione e radio. Tra le pagine sulla stampa e quelle sull’audio-visivo ci sarà però un lungo paragrafo sui fattori – soprattutto tecnologici ed economici – che hanno determinato le trasformazioni più evidenti.
Nel mondo occidentale l’informazione culturale comincia ad avere una circolazione degna di attenzione nel Settecento, ma le origini vere e proprie sono tardo-seicentesche. È vero che un primo incremento della circolazione di prodotti che oggi definiremmo “culturali” si era già avuto nella seconda metà del Quattrocento, grazie a Johann Gutenberg e alla stampa (cfr. tra i tanti Cursi, 2016; Tavoni, 2021; Colley, 2022; Braida, Ouvry-Vial, 2023). In Europa si passò in cinquant’anni da 30.000 manoscritti a 10 milioni di libri. Accanto ai libri, soprattutto sacri, parte del patrimonio di conoscenze di piccoli gruppi sociali, si erano cominciati a diffondere prodotti più popolari: romanzi cavallereschi, vite di santi, opuscoli con leggende e folklore, almanacchi. Siamo già nell’ordine delle migliaia di copie (milioni nel caso degli almanacchi), ma si è ancora in una fase di produzione culturale, anche popolare, e sarebbe improprio parlare di una diffusione giornalistica. Nella prima metà del Seicento nei principali paesi europei, inclusi gli Stati italiani, si assiste ai primi passi di periodici di natura varia, soprattutto di informazioni generali e notizie dall’estero, e poi fatti d’attualità, cronaca, opinione. Con illustrazioni. Sono strumenti funzionali alla borghesia commerciale, che ha bisogno di informazioni, e non a caso si sviluppano specialmente nelle città commerciali. In alcune aree geografiche, in particolare in Inghilterra, è un’epoca di grande produzione di pamphlet e giornali. Qualche decennio dopo arrivano i primi prodotti di informazione culturale, di cultura generale e filosofica, che possono essere considerati i progenitori dell’odierno giornalismo culturale: in Germania nel 1663 il “Monatsgesprache”; in Francia e in Inghilterra nel 1665 il “Journal des Savants”, le “Nouvelles de la République des Lettres” e le “Philosophical Transactions of the Royal Society”; a Roma nel 1668 il “Giornale de’ Letterati” e via via vari organi nei diversi paesi europei. Sono periodici paragonabili – con le ovvie differenze – alle riviste letterarie di oggi. Il “Giornale de’ Letterati”, recita il frontespizio, «riferisce i titoli dei libri nuovi, e fa di quelli un ristretto, portando qualche cosa delle più singolari, che siano in essi […] e poi curiosità, esperimenti». Svolgono insomma un’oggettiva funzione di diffusione di notizie e idee, ma occorre tenere presente che agli albori della stampa la diffusione incontrava vari limiti: struttura sociale, censura, macchinari (questi ultimi erano in grado di riprodurre un numero limitato di copie). Sino alla fine del xvii secolo la possibilità di avere tempo libero e la capacità di leggere e scrivere furono un privilegio di studiosi e pochi “gentiluomini”: l’ambito di circolazione era inevitabilmente piuttosto ristretto. Le maglie della censura, infine, mutavano spesso, le conquiste erano sempre temporanee, bastava un’autorità nostalgica di ordini precedenti per restringere le libertà (Caravale, 2022). L’evoluzione dell’informazione culturale procedeva come un sasso nello stagno, con onde che si allargavano progressivamente, figlie di diversi fattori: sociali, economici, tecnologici e, ovviamente, culturali. Nel giro di pochi decenni la cerchia dei lettori cominciò ad ampliarsi, economia e struttura sociale conobbero progressi, ed entrarono nel “mercato” della lettura, almeno in parte, due categorie sino ad allora a esso abbastanza estranee: il ceto medio dei mercanti e le donne. Il Settecento fu il secolo dei primi bestseller in senso moderno.
Come insegnano gli storici, le divisioni per secoli sono sovente semplici convenzioni, così come c’è spesso disaccordo sulle periodizzazioni. È un concetto che vale anche per l’evoluzione del giornalismo culturale, che è un’evoluzione graduale, senza passaggi bruschi. Se è dunque vero che già nel Seicento in diversi paesi europei vi erano giornali letterari che davano conto dei libri che uscivano, è comunque nel secolo successivo che gazzette, riviste e giornali diventano generosi contenitori di scritti letterari, recensioni e, non di rado, interventi che oggi definiremmo di “analisi” e di “polemica” culturale. In linea generale nel Settecento e nell’Ottocento furono le riviste i veicoli migliori per la diffusione delle idee, con percorsi piuttosto simili nei vari Stati europei, inclusi i diversi Stati italiani preunitari. Fra l’altro cominciano ad acquistare forza anche i giornali locali, segno della diffusione del fenomeno. Una delle più convincenti descrizioni di quel mondo, di ciò che rappresentò per lo sviluppo della società e per la circolazione delle idee, si trova in un celebre saggio del 1962 del filosofo e sociologo tedesco Jurgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (Habermas, 2002), che racconta genesi e sviluppo dell’opinione pubblica in Occidente. La sua analisi si sofferma su Inghilterra, Francia e Germania, ma è applicabile anche alla maggior parte degli Stati italiani. Habermas descrive la progressiva rottura dei ristretti argini della “repubblica delle lettere” (Fumaroli, 2021), figlia delle corti aristocratiche, delle università, delle Chiese, e la formazione di una sfera pubblica letteraria che diviene fondamentale per lo sviluppo della sfera politica, proprio perché le discussioni acquistano sempre più una dimensione pubblica, di interesse collettivo, anche di contrapposizione tra una classe sociale in ascesa, la borghesia, e l’assolutismo con i suoi vincoli.
Artefice di questa trasformazione è appunto la borghesia, con quei gruppi di privati che si riuniscono in luoghi aperti al pubblico – caffè, pub, teatri – o parzialmente aperti – i salotti – e lì scambiano idee e informazioni in modo razionale e critico, discutono di ciò che viene pubblicato sugli organi di stampa di cui abbiamo parlato – riviste e giornali sia commerciali sia letterari. Tutto ciò è particolarmente evidente in Francia. Qui è decisiva la funzione che svolsero i salotti e le conversazioni che da cerchie prevalentemente nobiliari e molto elitarie nel xvii secolo si diffusero e modificarono nel secolo successivo, così da formare appunto un primo nucleo di opinione pubblica e da assumere con l’avvento dei Lumi una funzione più progressista (Craveri, 2001). È quasi inutile ricordare il peso che ebbero club, caffè e associazioni nella genesi della Rivoluzione. Se la natura dell’informazione culturale è simile, vi sono però differenze anche notevoli in termini di penetrazione e influenza sulla società civile, dovute principalmente alla diversa natura e al diverso peso della borghesia intellettuale, ma anche al ruolo della censura, che in alcuni grandi paesi europei, con vicende ondivaghe, ha allungato le sue grinfie sino al tardo Ottocento. Fondamentale, poi, è il tipo di regime in cui la stampa si trova a vivere, e in questo senso i paesi anglosassoni, più liberali e riformisti, hanno creato un ambiente più favorevole al suo sviluppo (Briggs, Burke, 2010; Kovarik, 2015). Oltre a essere più libere, la stampa inglese, quella scozzese e quella americana erano anche più disinvolte, più orientate al commercio di quanto lo fosse la stampa continentale; c’erano già allora le differenze di fondo che ancora oggi contraddistinguono i due modelli. La stampa anglosassone era meno dipendente da ricchi e potenti patroni, ed è stata creatrice di un nuovo tipo di consumatore, più popolare, protoindustriale (Newbury, 2012).
Non è un caso che Voltaire provasse un certo fastidio per la stampa inglese, che definiva indecente e leggera. In realtà la stampa anglosassone era piuttosto versatile, c’erano cioè sia prodotti orientati al gusto popolare sia diverse riviste per le élite colte, con racconti e poesie, brevi saggi, articoli di commento all’attualità. Anzi, periodici generici, oggi li definiremmo “d’opinione”, come gli inglesi “The Spectator” e “Tatler”, ebbero un’influenza enorme su tutta la stampa occidentale. E i magazine inglesi e scozzesi di fine Settecento possono essere considerati i capostipiti delle recensioni delle novità librarie e della critica teatrale e musicale. All’inizio del Settecento a Londra si pubblicano 20 quotidiani con tirature annue di 2,5 milioni di copie, mentre nel 1770 le tirature annue salgono a 12 milioni e nel 1800 si contano 250 periodici. La stampa francese diventa comparabile per libertà a quella inglese dopo la Rivoluzione, e quelle tedesca e italiana ancora più tardi e solo negli Stati più illuminati. In generale, nell’Ottocento la libertà di stampa procede di pari passo con il tipo di regime politico.
Non è sbagliato dire che sino all’avvento di Internet la stampa, nonostante macroscopici cambiamenti, resta ancorata allo stesso principio meccanico. È fondamentalmente una questione di evoluzione delle macchine che permettono di aumentare il numero delle copie. All’interno di questo percorso un momento chiave cade nella seconda metà dell’Ottocento, quando una serie di innovazioni tecniche realizzate nei decenni precedenti si condensa, grazie a circostanze propizie, in mutamenti che non è retorico definire epocali, e non dissimili – per potenza di effetti – dalla rivoluzione che abbiamo vissuto con l’avvento della rete. Ricordiamo che la macchina a vapore è di fine Settecento, le prime locomotive e i primi telegrafi di inizio Ottocento. Anche la stampa è rivoluzionata dai progressi tecnologici: la macchina per la fabbricazione della carta, del 1798, la stereotipia e il torchio in metallo, di inizio Ottocento, e poi la macchina da stampa Koenig, del 1814, che utilizza il vapore e sostituisce il vecchio torchio con il cilindro, e permette finalmente di stampare migliaia di fogli al giorno. Da allora e per i decenni successivi, grazie soprattutto alle capacità industriali e di innovazione di tedeschi e anglosassoni e alla domanda crescente del mercato, ovviamente stimolato dall’offerta, i miglioramenti furono per così dire inesorabili. I giornali vennero definiti “locomotive sociali”. Quello che accade nei decenni in questione è quasi il modello perfetto di come vari fattori – in questo caso progresso tecnico, istruzione obbligatoria e organizzazione produttiva più razionale – si influenzino a vicenda, tanto che non è semplice attribuire primati e meriti.
Il primo fattore da considerare è quello tecnico: la meccanizzazione ci dà gli strumenti di cui abbiamo parlato poco sopra. A stimolarlo ci sono però le mutate condizioni di mercato, a loro volta influenzate da profonde trasformazioni della struttura sociale, che spesso sono figlie di atti politici. Pensiamo a quel che accadde in Inghilterra, dove a stimolare la produzione e il consumo di giornali furono proprio questi ultimi. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento vennero abolite la tassa sulla pubblicità, il bollo per i giornali e la tassa sulla carta. Provvedimenti che ebbero come conseguenza l’aumento del numero dei giornali e la sostituzione del torchio azionato a mano con la macchina piano-cilindrica. Pensiamo inoltre alle conseguenze enormi che ebbero le leggi sull’istruzione, che si diffusero in tutta Europa e diedero vita a intere generazioni di nuovi lettori, affamati fra le altre cose di riviste e giornali popolari. Sono processi che, anche se con qualche differenza cronologica, interessano quasi tutti i paesi occidentali, anche perché è un’epoca in cui idee e innovazioni circolano con grande rapidità; forti e percepibili sono l’influenza e l’imitazione reciproca, e colpisce come certi fenomeni si ritrovino un po’ ovunque.
Vedremo più avanti in Italia e Inghilterra; in Francia la stampa di massa decolla all’inizio degli anni Ottanta e nel 1890 “Le Petit Parisien” si vanta di essere il primo quotidiano popolare europeo a superare il milione di copie. Gli Stati Uniti fanno da apripista. Laddove nel Seicento e nel Settecento vengono seguite le orme inglesi, e quindi abbiamo riviste d’opinione, giornali di supporto politico, qualche pubblicazione omnibus, complessivamente una grande vitalità – nel 1800 vi erano 178 settimanali e 24 quotidiani -, nell’Ottocento sono gli americani a inaugurare il passaggio al giornalismo moderno, che dallo stretto rivo della letteratura e della politica sfocia nel mare del business.
Sono la storia e la struttura del paese a determinare un percorso diverso. Qui il giornalismo diviene il prodotto di una democrazia di massa, figlia dell’immigrazione, e quindi è quasi obbligato a usare un linguaggio piano, accessibile; c’è insomma un approccio decisamente più egualitario. Un giornalismo che troverà, fra l’altro, un sistema di tassazione molto meno severo che in Europa. Nel 1833 il “New York Sun” di Benjamin Day inaugura la stagione della pennypress, la stampa economica e popolare: c’è un miglioramento della distribuzione, si passa dagli abbonamenti alla vendita nelle strade, le tirature in breve superano le 50.000 copie. È la scoperta del pubblico di massa, sono i primi passi del giornalismo professionale e della concorrenza giornalistica (Papuzzi, 2010; Bergamini, 2013; Murialdi, 2021). Qui nasce il cosiddetto yellow journalism, con le foto scioccanti e gli scandali: nella seconda metà dell’Ottocento il Midwest – “Chicago Times”, “The Kansas City Star” – diventa la patria del sensazionalismo; e soprattutto qui viene per la prima volta usato – dal “New York Tribune” – lo strumento più rivoluzionario di tutti: la linotype, una macchina per la composizione automatica che si getta dietro le spalle la composizione manuale e permette di stampare 50.000 copie in un’ora, vero motore della trasformazione del giornale in un prodotto di massa. Gli americani sono abilissimi nello sfruttare la tecnologia per modificare in modo sostanziale il giornale. Grazie ai miglioramenti tecnici i quotidiani possono ospitare molte fotografie, caricature e fumetti, e la domenica cominciare a rimpolparsi con i supplementi. Si apre l’epoca dei grandi magnati dell’editoria, che costruiscono stabilimenti giganteschi con le macchine per la stampa in rotativa e la composizione meccanica.
Anche in Gran Bretagna, che veniva da un secolo molto variegato e vivace dal punto di vista editoriale, cominciano a dilagare i giornali popolari, come il “News of the World”, classe 1843 (chiuso nel luglio 2011 dal proprietario Rupert Murdoch a seguito di una serie di scandali), o il “Daily Mail” (1896), che non avevano molto da invidiare ai tabloid di oggi in termini di pruriginosità e titillamenti, sesso e crimine. Erano giornali molto diffusi (agli inizi del Novecento in Gran Bretagna si stampavano oltre 3 milioni di copie al giorno), figli di quell’insieme di elementi cui si è accennato: rivoluzione tecnologica, inurbamento e nascita della middle class e del working-class reader, ovvero accesso delle masse alla lettura. Insomma, prodotti industriali di massa.
Che cosa c’entra tutto ciò con l’informazione culturale? Molto, anche se si tratta di processi e influenze spesso sotterranei e di lungo periodo. Il crescente orientamento al mercato dei prodotti editoriali modifica in modo profondo l’offerta della stampa, con conseguenze inevitabili anche sulle pagine culturali. A determinare inoltre una delle grandi mutazioni del Novecento, quella della gerarchia delle forme culturali nonché del significato della parola “cultura”, sono anche i mezzi di comunicazione di massa, è quindi importante conoscerne a grandi linee l’evoluzione.
Se questa è la cornice generale, che cosa accade più in particolare in Italia? Subito dopo l’Unità (1861) ci fu un momento di proliferazione dei quotidiani, ma per molti di essi si trattò di una stagione breve. Le vendite erano scarse e la dipendenza dalle sovvenzioni politiche – problema di lungo corso della stampa italiana – molto forte. Diversi giornali erano sovvenzionati dal ministero dell’Interno, altri da banche.
Nella maggior parte dei casi lo stile era alto, la lingua letteraria, gli autori spesso letterati e avvocati. Non mancavano esempi di quotidiani – “Il pungolo”, “La Perseveranza” – che nella cronaca puntavano sulle tinte forti, ma in generale la nostra stampa accumula un sensibile ritardo nello sviluppo di un giornalismo di consumo, di intrattenimento, di massa. Anche l’evoluzione del giornalismo nostrano dipenderà dalla crescente attenzione ai gusti del lettore e dall’impiego di nuovi macchinari e dal conseguente aumento delle copie circolanti. Grazie a entrambi i fattori, all’inizio del xx secolo tre testate superano le 100.000 copie: “Corriere della Sera”, “Il Secolo” – che pubblica con grande successo moltissimi feuilleton – e “La Tribuna”. Il “Corriere della Sera” poco prima della Grande Guerra tocca quota 350.000 copie e durante il conflitto tira spesso 600.000 copie. “La Stampa”, la “Gazzetta del Popolo” e “il Resto del Carlino” veleggiano tra le 150.000 e le 200.000 copie, l’“Avanti!” si assesta sulle 400.000. Durante gli anni Trenta “La Stampa” e “Il Popolo” si attestano sopra le 300.000 copie. All’epoca anche “L’Osservatore Romano” era un quotidiano di larga diffusione: negli anni Trenta superò spesso le 250.000 copie.
Se l’immagine più realistica degli anni Trenta è quella di una spaventosa mordacchia, va anche detto che per la stampa italiana fu un periodo di modernizzazione. Aumentano le fotografie, le corrispondenze dall’estero, fioriscono i periodici femminili, le riviste per ragazzi, i fumetti, che arrivano a vendere 1,65 milioni di copie a settimana. C’è una sorta di anticipazione – in questo caso dovuta a ragioni politiche – di quello che avverrà con la società del benessere: crescono molto le pagine legate alle attività del tempo libero. Vengono lanciate iniziative, quali gli inserti settimanali pensati per categorie (ad esempio la “Gazzetta del Popolo” con la moda, la radio, l’arte, il teatro, il cinema), che si tenderebbe a immaginare come figlie del secondo dopoguerra. Ma fermiamoci qua, perché il giornalismo culturale italiano merita un capitolo a parte.
Un estratto del libro di Giorgio Zanchini La cultura nei media – Dalla carta stampata alla frammentazione digitale, Carocci editore.