Mangiar bene è di moda. Ma orientarsi tra menu, carte dei vini, insegne bio e superfood può rivelarsi sfiancante. Anche perché mancano riferimenti affidabili. Il marketing asfissiante non aiuta. Ne abbiamo parlato con la giornalista Alessandra Biondi Bartolini
Mangiar bene è di moda. Il marketing alimentare non è mai stato così attivo nel proporre prodotti nuovi, dai nomi esotici, talvolta lunghissimi; e mentre nei laboratori si producono hamburger vegetali, fuori non si contano i tentativi di recuperare ingredienti e piatti della tradizione. Orientarsi tra menu, carte dei vini, insegne bio e superfood può rivelarsi sfiancante. Anche perché mancano riferimenti affidabili. Le etichette aiutano, ma non bastano. Anche perché attorno a questi indispensabili chiarimenti si consumano battaglie che ricordano le Guerre mondiali, fuori e dentro i confini.
In Italia, è noto, si mangia mediamente meglio che all’estero; un’attenzione che spesso si traduce nel gusto di scoprire l’origine di quanto finisce in tavola. Ma, se la varietà e qualità dei prodotti disponibili al di sotto delle Alpi non è in discussione, anche da noi non mancano mode, stereotipo, e falsi miti, difficili da sfatare. C’entra, ovviamente, la pubblicità, ma anche fattori culturali, come nel caso delle bevande alcoliche.
Ne abbiamo parlato con Alessandra Biondi Bartolini, giornalista, agronoma e divulgatrice. Nonostante se ne occupi da decenni (o forse proprio per questo), Biondi, da scienziata, mantiene un atteggiamenti laico sul tema del cibo: inutile cercare giustificazioni, si mangia e si beve anche perché è un piacere. Tra gli ultimi lavori realizzati, la serie di podcast “C’è fermento” registrata in collaborazione con la nutrizionista Antonella Losa, che si concentra su una delle ultime tendenze alimentari. Con lei abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza.
In un’epoca di pubblicità personalizzata e invadente, di hashtag e viralità, nuovi miti alimentari nascono e si sgonfiano tutti i giorni. Difficile trovare la bussola. Vogliamo citarne qualcuno?
Comincerei col dire che non si tratta di un fenomeno recente. Da sempre esistono alimenti che, appena scoperti – o appena portati da un luogo all’altro-, vengono presentati come toccasana. Ad esempio, lo yogurt e le varietà di latte fermentato: sono prodotti tradizionali nei paesi dell’Est europeo, ma da noi in Occidente arrivano solo nella belle époque, diventando subito il cibo della longevità. Quello degli alimenti fermentati è un mondo che continua ad affascinare emotivamente anche oggi: si tratta di prendere qualcosa e trasformarlo in qualcos’altro con l’intervento dei microrganismi. Ma c’è una corrente di pensiero secondo cui tutto quanto fermentato è buono a prescindere: in realtà non è sempre così. Prendiamo il kombucha: è un the acidulo, poco alcolico, sottoposto a un processo di fermentazione simile a quello dell’aceto. Arriva negli anni Cinquanta, e tutti pensano che faccia benissimo. In realtà sono pochissimi gli studi scientifici al riguardo.
Stiamo smontando il primo mito, quello dei fermenti?
Generalmente non sono i fermenti in sé a far bene, ma alcune molecole prodotte durante il processo. Ma i cibi non sono medicine: fondamentalmente li consumiamo perché ci nutrono e ci piacciono.
Un punto interessante. Facciamo qualche altro esempio?
Tipicamente, il vino. Le civiltà tendono a crearsi delle scuse. Dalla notte dei tempi l’uomo è attratto dalle bevande alcoliche; la cultura ha poi aggiunto altre motivazioni, che ancora oggi accompagnano il consumo. Al vino, nei secoli sono state riconosciute proprietà magiche, salutari; veniva prescritto come fosse una medicina: Galeno ha addirittura stilato un elenco di quelli da bere a seconda dell’effetto terapeutico desiderato. E questa mentalità ce la portiamo fino a oggi, quando abbiamo evidenze scientifiche innegabili che gli alcolici facciano male. Si tratta di effetti legati alla dose assunta, certamente, ma che l’alcol sia causa di una serie di tumori ormai non si può certo negare. Eppure, ogni volta che si verifica un tentativo, anche istituzionale, di fare informazione sui rischi, a fare resistenza non è solo il settore enologico, fatto tutto sommato abbastanza normale: sono gli stessi consumatori. E’ difficile, dal punto di vista antropologico, dire “bevo un alcolico perché mi piace”. Ad ogni modo, Europa e Oms hanno proposto un piano per limitare il consumo di alcolici, e il settore del vino sta opponendo resistenza in maniera a mio avviso poco lungimirante. Dal mio punto di vista, non vedo una reale possibilità che i popoli mediterranei smettano di bere vino perché porta patologie, ma informarli sui rischi per la salute è necessario e fondamentale.
Non è infrequente leggere di studi che riconoscono al vino proprietà benefiche. Sono privi di fondamento?
Nel vino rosso si registra effettivamente la presenza di costituenti con proprietà antiossidanti, ma si tratta di quantità che non arrivano mai ad avere un’azione fisiologica. Alcuni benefici ci sono, ma i rischi per la salute restano maggiori. Il rischio di tumore aumenta percentualmente con la dose, e questa consapevolezza sta mettendo in crisi l’industria: quella sul bere con moderazione è una delle campagne che anche il settore enologico sta promuovendo con maggior forza.
Il problema, per i consumatori, è che sui media si tende a semplificare: difficile affrontare ragionamenti complessi, anche perché l’attenzione del lettore svanisce in fretta. Si cerca la notizia, la frase ad effetto. Ne perde la completezza.
Su quelli mainstream arrivano tipicamente i comunicati stampa delle associazioni dei produttori, riportati tali e quali. E non si spiega mai al pubblico da chi arrivano le notizie. Come quando, anni fa, si potevano leggere campagne di incentivo al consumo dello zucchero: la pubblicità diceva “è energia, fa bene al cervello”. Peccato che il committente fosse l’associazione di categoria; e infatti oggi le linee guida sono cambiate, e una pubblicità del genere è difficile da immaginare. Ribadisco, è sempre necessario chiarire chi sta parlando.
La birra è un altro esempio. Famosa una campagna pubblicitaria, forse degli anni Sessanta, che spiegava come fosse una bevanda adatta a chi guidava, al contrario del vino.
Aveva il solo vantaggio di avere qualche grado in meno. Fortunatamente, però, c’è stato anche qualche episodio contrario, più recente: qualche anno fa, nella pubblicità di un noto marchio, un famoso pilota di Formula Uno rifiutava di mettersi alla guida dopo un bicchiere.
Altri esempi?
La stessa Coca Cola nasce in farmacia, come energy drink. Conteneva originariamente foglie di coca, noci di cola e chinino, un antifebbrile, e tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento era proposta per dare sollievo alla stanchezza. Poi col tempo cambia reputazione, passando attraverso la fase “bevanda per famiglie”, fino a diventare junk food. Oggi è famosa la campagna di Michelle Obama contro le bibite gassate. Ma anche in Italia qualcosa si è mosso: all’inizio del decennio scorso, un’associazione dei consumatori ha fatto ritirare una pubblicità che presentava la Coca Cola servita a tavola in famiglia a fianco dei cibi della dieta mediterranea.
Il caffè è amato da eserciti di appassionati bevitori. Anche sulla tazzina, le leggende si sprecano. Antistress, contrasta il mal di testa. Sicuramente è un eccitante. Qual è la verità?
Nessuno pensa che il caffè, bevuto con moderazione, faccia male.
Torna la moderazione.
In questo caso, il marketing sta lavorando molto sugli aspetti legati alla sostenibilità sociale o ambientale: per renderlo un prodotto a basso costo si scaricano i costi su chi lo produce, cioè i coltivatori nei Paesi sudamericani o africani. Ultimamente, inoltre, si sta sviluppando un movimento di specialty coffee, più particolari e ricercati, e quindi più costosi.
Veniamo ai cereali.
I grani antichi non hanno niente di antico: sono semplicemente le varietà che venivano coltivate prima degli anni Cinquanta del Novecento, abbandonate perché la resa era bassa ed erano difficili da coltivare. Non c’è niente di naturale nel grano, almeno secondo l’accezione comune: tutte le varietà coltivate oggi nascono da un processo di domesticazione e incrocio, che ha privilegiato quelle che, ad esempio, tengono meglio la cottura. Il movimento di recupero dei grani “antichi” può comunque avere senso rispetto alla biodiversità agricola, che in sé è un bene, e dal punto di vista del gusto.
Chiudiamo con un classico che mette d’accordo tutti. La dieta mediterranea si salva?
Sì. Ma attenzione: il concetto di dieta mediterranea non coincide con “quello che si mangia nelle varie regioni d’Italia”. Penso all’abbacchio, al lardo di Colonnata, ai salumi: non tutti i prodotti tipici sono salutari. La dieta mediterranea è molto più simile alla dieta greca, con molti vegetali, tante verdure fresche. Ma anche in questo caso, l’interpretazione che è stata data al concetto è diversa, ed è legata alla difesa del made in Italy.