Il ricercatore Ashutosh Goel della scuola di ingegneria Rutgers si è concentrato su un modo per immobilizzare lo iodio 129 contenuto nei rifiuti radioattivi. Ma la ricerca continua e presto coinvolgerà altri componenti dei combustibili esausti delle centrali
Non solo il recupero di materiali di scarto, come viene di solito inteso, ma la trasformazione di rifiuti che altrimenti sono una bomba ambientale difficile da gestire: la nuova frontiera del riciclo riguarda le scorie radioattive prodotte dalle centrali nucleari. Gli scienziati hanno trovato un modo per trasformarle in vetro. O, per meglio descrivere il processo, “imprigionare” i rifiuti nucleari mescolandoli a vetro e ceramica per annullarne la pericolosità. L’inventore del nuovo metodo si chiama Ashutosh Goel ed è un ricercatore indiano arrivato alla Scuola di ingegneria Rutgers nel 2014 dopo un dottorato sul vetro e sulla ceramica all’Università di Aveiro in Portogallo e altre esperienze in laboratori indiani e americani.
Immobilizzare le scorie nel vetro
In realtà, la “vetrificazione”, come viene definito il metodo, non è una novità. Era già stato sperimentato il Geomelt che però prevedeva temperature di trattamento dei rifiuti tra i 2.000 e 3.000 gradi. Il metodo Goel riguarda essenzialmente lo iodio 129, risultato della fissione di uranio e plutonio.I potenziali rischi per la salute dello iodio 129, se non accuratamente smaltito, riguardano soprattutto il cancro alla tiroide. Si procede a fondere questo scarto con il vetro e a realizzare così un composto molto resistente, in grado di immobilizzare lo iodio 129 che altrimenti avrebbe una vita media di 15,7 milioni di anni. Il tutto avviene in contenitori cilindrici a temperatura ambiente.
Il problema della bonifica degli impianti
A finanziare il progetto è stato principalmente il dipartimento di Energia americano. L’ente governativo, dopo 45 anni di produzione di armi nucleari, si preoccupa oggi di supervisionare il processo di pulizia e bonifica di molti siti distribuiti negli stati dell’Idaho, del Nevada, del South Carolina, del Tennessee e di Washington. Il problema più grosso, secondo l’agenzia, sta proprio in quest’ultimo stato dove esiste un sito, a Hanford, che è tutto da bonificare. La quantità di combustibile prodotto dai suoi reattori si aggira attorno alle 110mila tonnellate. Il rifiuto liquido è stato messo in 177 bidoni, ma il loro smaltimento non è stato ancora completato. In genere esistono due metodi accettati per l’immagazzinamento dei rifiuti nucleari che vengono riconosciuti dalla Commissione regolamentare apposita degli Stati Uniti: depositarli in piscine o chiuderli in casse da mantenere nelle vicinanze degli impianti. Ovviamente nessuno dei due metodi è immune da rischi: per i rifiuti custoditi nelle piscine, l’eventuale evaporazione dell’acqua può portare alla dispersione di materiale radioattivo nell’aria. Problemi analoghi si verificherebbero in caso di terremoti. A questo va aggiunto il pericolo terroristico e la necessità di sorvegliare costantemente questo materiale.
La ricerca continua
È per questo che l’innovazione di trasformare i rifiuti in vetro e ceramica e poi seppellirli sembra essere la soluzione più sicura e immediata per risolvere la questione delle scorie nucleari. Almeno in parte. Gli studi di Goel non si fermano comunque al solo iodio 129. Al momento il ricercatore partecipa a 6 progetti sostenuti da vari enti e sta lavorando a un metodo per sintetizzare minerali dallo ioduro di argento e per immobilizzare sodio e ossido di alluminio, anch’essi presenti nei rifiuti nucleari. Il termine fissato per cominciare a produrre questo vetro speciale a Hanford è il 2022: «Le implicazioni della nostra ricerca saranno più visibili a quel punto», assicura Goel. La ricerca potrebbe essere potenzialmente allargata anche ai combustibili esausti attualmente conservati nelle varie centrali nucleari: «Dipende dalla composizione di questi rifiuti, quanto sono complessi e cosa contengono. Se conosciamo la composizione chimica delle scorie nucleari presenti in questi impianti, possiamo senza dubbio lavorare con essi», aggiunge il ricercatore indiano.