Ce lo siamo fatto spiegare da Elena Di Stefano, dottoranda in Scienze Ambientali all’Università Bicocca di Milano
«Per quanto possa fare impressione il fatto che l’acqua contaminata di Fukushima verrà rilasciata in mare, si tratta comunque di un’operazione di routine. In questo caso la differenza è soltanto nelle enormi quantità d’acqua in ballo. In un mondo ideale, ovvio, non avremmo avuto questi milioni di metri cubi da gestire, ma in un’ottica di riduzione del danno mi sembra che si stia cercando di affrontare la faccenda con coscienza». StartupItalia è tornata a intervistare Elena Di Stefano, dottoranda in Scienze Ambientali all’Università Bicocca di Milano, per capire quanto e se l’ambiente rischia dopo la decisione del governo di Tokyo di procedere con lo sversamento in mare delle oltre 1,25 milioni di tonnellate di acqua utilizzate per raffreddare i reattori danneggiati dopo la catastrofe del 2011.
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Fukushima, 10 anni dopo
La reazione da parte del mondo ambientalista non si è fatta attendere. Greenpeace, ad esempio, ha spiegato che «questa decisione ignora completamente i diritti umani e gli interessi della gente di Fukushima e in generale del Giappone e della parte di Asia che si affaccia sul Pacifico». Lasciando da parte gli scontri politici, abbiamo chiesto alla dottoranda dell’Università Bicocca come avverrà questa delicata operazione. «In casi simili l’acqua rilasciata in mare – spiega – viene prima trattata per eliminare tutto quello che si riesce a togliere di radioattivo. Parliamo di oltre 60 elementi. Fatta eccezione per il trizio, che essendo legato alla molecola dell’acqua è più difficile da separare. Ma in natura esiste il trizio e l’uomo è già esposto ai suoi bassi livelli di radioattività».
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Come ha spiegato Elena Di Stefano i protocolli internazionali per compiere operazioni di riciclo simili sono ferrei e tutti i paesi hanno interesse a rispettarli per il bene dell’ambiente e della salute. «L’utilizzo di una centrale nucleare – aggiunge – comporta il grande problema degli elementi di scarto. Quello che si cerca di fare è compattarli affinché siano meno ingombranti possibili. Una delle soluzioni potrebbe essere quella di trovare un unico sito dove stoccarli in modo che lì rimangano per migliaia di anni, in sicurezza». Per quanto riguarda invece l’acqua, già utilizzata per operazioni di routine nelle centrali, la questione è più complicata, soprattutto perché dopo il disastro di Fukushima ne sono state utilizzate quantità considerevoli. «Quello che è rimasto sono i milioni di metri cubi di acqua a bassa radioattività, troppo ingombranti per essere stoccati e quindi è inevitabile rilasciarli in mare. Sono una conseguenza dell’incidente che c’è stato».
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Energia atomica e transizione ecologica
Nel pieno di un dibattito internazionale sulla transizione ecologica, prima o poi la politica dovrà sciogliere il nodo sul futuro delle centrali nucleari, dando una risposta definitiva al loro utilizzo o alla loro chiusura. Al di là dell’ideologia e delle prese di posizioni legittime sui rischi, c’è spazio per l’energia atomica in un futuro più sostenibile per tutti? «La mia opinione è che, rispetto ad altre energie rinnovabili, l’energia atomica dà accesso a una quantità di energia più grande. La questione da affrontare – conclude Di Stefano – è che un paese deve saperla gestire in sicurezza».