“La nostra azienda ha le potenzialità per scalare su larga scala”, spiega Tiziana Monterisi, cofondatrice della startup che ha moltiplicato il fatturato e ora punta a diffondere nel mondo un nuovo modello nel settore delle costruzioni
“Ristrutturando le cascine piemontesi, trovavamo spesso materiali di scarto del riso. Perché, semplicemente, era quello che gli abitanti avevano a disposizione”. Durante la sua carriera di architetto e ancor prima di fondare la startup RiceHouse, Tiziana Monterisi ha sempre cercato soluzioni naturali per realizzare edifici a impatto zero. Nel 2016, dopo essersi trasferita a Biella decide di fondare, insieme al compagno Alessio Colombo, un’impresa in grado di sfruttare proprio lo scarto del riso, una delle risorse più diffuse e comuni nell’area, come alternativa ai materiali dell’edilizia tradizionale.
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“L’Italia è il primo produttore di riso in Europa. In particolare, nella zona compresa tra Biella, dove viviamo e RiceHouse è stata fondata, e Pavia, si concentra oltre il 90% della raccolta nazionale”. Ogni anno, durante la raccolta di settembre e ottobre, in queste zone viene bruciata un’enorme quantità di scarti del riso: basti pensare, sottolinea Monterisi a StartupItalia, che “ogni ettaro di terreno produce circa sette tonnellate di riso e dieci tonnellate di scarto“. Per rendersi conto delle quantità, nel nostro Paese si accumula un milione di tonnellate di scarto ogni anno. Si tratta soprattutto di lolla, la pelle del chicco, argille e paglia, oltre ad acqua e amido.
Case di riso
“Già da fine ‘700, la paglia di altri cereali veniva utilizzata negli Stati Uniti, in particolare nel Nebraska, come materiale di costruzione, in assenza del legno”. Oggi, l’uso della paglia di cereali è diffuso nell’edilizia. Quasi nessuno, però, aveva ancora sperimentato l’impiego della paglia e degli scarti del riso: da qui la novità introdotta da RiceHouse, che attinge a una risorsa quasi infinita. “Il riso viene prodotto esclusivamente per sfamare l’uomo e non per altri scopi, come l’alimentazione animale. E, soprattutto, è un alimento indispensabile per due terzi della popolazione mondiale”. In altre parole, si sfrutta la produzione esistente facendo ricorso a materie che altrimenti verrebbero bruciate, applicando a pieno la logica dell’economia circolare.
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L’esperienza della startup piemontese ha mostrato un’altra preziosa qualità del cereale più diffuso al mondo: essere un’alternativa ai tradizionali materiali dell’edilizia, tra le industrie più inquinanti al mondo. Il prossimo passo è ancora più ambizioso e consiste nel rendere lo scarto del riso una soluzione su larga scala per il settore. Un obiettivo difficile ma realizzabile. Ne sa qualcosa la stessa RiceHouse, che, dopo aver vinto l’edizione 2021 del premio Wpp Innovators, anche grazie ai Superbonus edilizi chiuderà il 2021 con un fatturato quasi sette volte superiore rispetto all’anno scorso.
Da intuizione a realtà, il modello RiceHouse
StartupItalia: Da dove viene l’idea di utilizzare il riso come materiale di costruzione?
Tiziana Monterisi: «Da architetto, mi sono sempre interrogata sui materiali naturali per costruire edifici a energia e impatto zero. Ristrutturando le cascine nel Nord Italia, specialmente in Piemonte, trovavamo spesso materiali di scarto del riso: la lolla, le argille e la paglia. La paglia di altri cereali era utilizzata, già a fine ‘700, negli Stati Uniti, in particolare nel Nebraska, come materiale di costruzione, in assenza del legno. Partendo da queste premesse, RiceHouse è nata con l’intento di valorizzare la parte non edibile del riso, diventata una materia prima di fondamentale importanza, ma pressoché inutilizzata nell’edilizia prima del nostro arrivo. Per di più, l’Italia è il primo produttore di riso in Europa e, in particolare, tra Biella e Pavia si concentra il 92% della produzione nazionale».
SI: Perché, prima di voi, quasi nessuno ha pensato agli scarti del riso?
TM: «Per due motivi. Il primo è che, semplicemente, in alcune aree sono disponibili altri tipi di cereali. In più, il riso presenta alcune difficoltà: pur non essendo una pianta acquatica cresce in acqua e si raccoglie a inizio autunno, quando spesso c’è maltempo e non sempre è secca al punto tale da poter essere usata. Ci sono però anche numerosi pro, a partire dal fatto che ogni ettaro di terreno coltivato produce circa sette tonnellate di riso e dieci di scarto. Si deve poi considerare che il riso è un alimento indispensabile per due terzi della popolazione mondiale ed è un cereale prodotto esclusivamente per sfamare l’uomo e non per altri scopi, come l’alimentazione animale».
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SI: Per funzionare, la formula di RiceHouse ha bisogno di convincere parte dell’industria alimentare e di quella edilizia. Cinque anni dopo la sua nascita, qual è il risultato?
TM: «Siamo riusciti a sensibilizzare chi sta a monte della filiera, i risicoltori e l’industria risiera, come Riso Gallo, oggi nostro socio. Se prima dovevamo quasi farci pregare per ricevere lo scarto, oggi ci chiamano loro per consegnarlo. Dall’altro lato, si stanno interessando sempre di più i costruttori, gli architetti e i professionisti del mondo edilizio. Pian piano sta emergendo una nuova filiera sostenibile a livello economico e ambientale che valorizza il territorio in Italia e Spagna, dopo il nostro Paese tra i maggiori produttori di riso».
Verso una nuova edilizia e oltre
SI: Una nuova filiera di cui RiceHouse è apripista: si tratta di un esempio replicabile e, soprattutto, scalabile per le aziende del settore edilizio, oggi in ripresa dopo diversi anni?
TM: «La nostra è stata una scelta molto precisa: siamo una società benefit e tra le dieci B Corporation più sostenibili in Italia. RiceHouse ha le potenzialità per scalare al di fuori della nicchia della bioarchitettura e diventare un’alternativa su larga scala ai materiali impattanti dell’edilizia. La materia prima c’è in abbondanza e oggi ne usufruiamo soltanto in minima parte. Questo significa che, quando cresceranno le richieste, aumenteremo l’utilizzo dello scarto e avremo più terzisti che produrranno per noi. Il trend ormai è chiaro, la ripresa può e deve passare da una visione di economia circolare, che rispetti le cosiddette tre P, profitto, persone e pianeta».
SI: Oltre agli edifici, cosa si può fare con lo scarto del riso?
TM: «Sempre più aziende alle prese con carenza di materie prime ci contattano per sapere se i materiali utilizzati da RiceHouse possono essere adottati nella loro produzione. Siamo così arrivati a realizzare tessuti e manici di pentole in lolla di riso».
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La svolta con il Supebonus
SI: Tornando al percorso di RiceHouse, dall’estate dello scorso anno sono attivi i bonus edilizi al 110%. Che effetto hanno avuto nel vostro caso?
TM: «Per noi è stata una manna dal cielo, perché ci porterà, a fine anno, a moltiplicare il fatturato per sei o per sette rispetto al 2020. Passeremo da un ricavo di 345mila euro a sfiorare i due milioni. Gli ambiti di applicazione dell’Ecobonus 110% coincidono infatti con le caratteristiche dei nostri materiali: entrambi puntano all’efficientamento energetico e si possono utilizzare per ristrutturazioni o nuove costruzioni. A questo si aggiunge la scarsità di materiale a disposizione delle imprese edili e dei progettisti, portati quindi a rivolgersi altrove per finire i lavori in tempo».
SI: Oltre ai miglioramenti energetici, lo Stato prevede i finanziamenti del Sismabonus per le aree sensibili del territorio, un altro ambito molto importante.
TM: «Stiamo lavorando molto anche sotto questo aspetto, specialmente nelle demolizioni e ricostruzioni di edifici. La lolla o la paglia, insieme al legno, sono indicati per le costruzioni in zone sismiche».
Il futuro di RiceHouse
SI: Dopo un recente round di 600mila euro, che ha visto la partecipazione anche di Riso Gallo, quali saranno i vostri prossimi passi?
TM: «Stiamo strutturando un piano triennale e, da quest’anno, abbiamo diviso tre unità specifiche di business: progetto, prodotto e open innovation. In particolare, stiamo cercando di capire su quali ambiti specializzarci e fare ricerca interna e in collaborazione con grandi aziende. In un anno siamo passati da una squadra di cinque persone a 17 e stiamo facendo i colloqui per assumere altre cinque persone. Con l’obiettivo di crescere e confermare la presenza di RiceHouse in Italia».
SI: Nessun accenno all’internazionalizzazione del business.
TM: «Abbiamo da poco iniziato a lavorare nei Paesi del nord Europa, in Giappone e in Indonesia. Lo scopo, però, non è quello di esportare il nostro prodotto, ma creare i canali più adatti per diffondere e riprodurre il modello RiceHouse in giro per il mondo. Se il riso è presente in molte parti del mondo, significa che la nostra attività è replicabile altrove. Bisogna ragionare sulla formula glocal e tornare a dare importanza anche allo sviluppo del territorio e all’economia di prossimità».