In vista di SIOS Sicily Edition abbiamo raggiunto il ricercatore del Centro Nazionale delle Ricerche per approfondire le potenzialità di un elemento fondamentale. Ma a quali condizioni? Come può il Sud diventare l’hub nazionale?
Che ruolo sta giocando e giocherà l’idrogeno nel futuro energetico del nostro paese? Quanto dobbiamo aspettarci e in cosa dobbiamo investire? Quali tecnologie servono e dove, invece, l’idrogeno sarebbe controproducente? A pochi giorni dalla prima edizione di SIOS Sicily, in programma a Catania il 30 novembre in collaborazione con Enel, abbiamo intervistato Nicola Armaroli, Research Director presso il CNR proprio per rispondere alle domande più elementari. Quelle che molti hanno posto ai professori sui banchi delle superiori. Per ripassare una delle tematiche più complesse del dibattito sulla transizione energetica dobbiamo partire da lì.
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Professore, che cos’è l’idrogeno?
«L’idrogeno è l’elemento più leggero e più abbondante dell’universo. Anche sulla Terra ce n’è tanto, ma è combinato con ossigeno, è il caso dell’acqua, o col carbonio, è il caso del metano. L’idrogeno sta anche in una enormità di molecole organiche. Ma non è quello l’idrogeno che ci interessa. Noi vogliamo la molecola H2, ovvero l’idrogeno molecolare, che sul nostro pianeta è quasi inesistente. Su Giove, invece, sarebbe una fonte di energia, perché l’atmosfera ne è piena. Fortunatamente la nostra atmosfera è ricca invece di ossigeno, sennò non ci sarebbe vita».
L’idrogeno si può considerare una fonte di energia?
«È un vettore, non una fonte, poiché appunto non esiste e deve essere prodotto. Una volta prodotto, l’idrogeno è energia chimica che può essere sfruttata per produrre elettricità, con un dispositivo chiamato cella a combustibile, o calore. Bruciandolo ad esempio nel forno di una vetreria, al posto del metano».
Da dove otteniamo dunque l’idrogeno molecolare?
«L’idrogeno va estratto dalle molecole nelle quali si trova. Ad esempio lo si ricava dal metano con un processo complesso chiamato steam reforming. Purtroppo però produrre idrogeno da metano comporta l’emissione di enormi quantità di CO2. È il cosiddetto idrogeno grigio, quello prodotto oggi nel 95% dei casi. Perché è conveniente dal punto di vista economico».
Sentiamo invece sempre più spesso parlare di idrogeno verde. Qual è la differenza rispetto all’idrogeno grigio?
«L’altra fonte da cui estrarre l’idrogeno è l’acqua, H2O. L’acqua deve essere dolce, anzitutto. Il processo consiste nello scindere i due componenti, idrogeno e ossigeno. In questo caso, non essendoci di mezzo carbonio, non si forma CO2. Ecco perché si chiama idrogeno verde. La scissione può essere fatta usando elettricità e per fare questo servono dispositivi chiamati elettrolizzatori. Dal momento che oggi in Italia si produce elettricità al 40% da fonti rinnovabili, è già possibile produrre idrogeno verde con un impatto ambientale basso».
Non si dovrebbero avere dunque dubbi: bisogna produrre fin da subito soltanto idrogeno verde.
«L’idrogeno verde ha un costo più elevato e, al momento, non è economicamente competitivo. Gli elettrolizzatori dovrebbero calare di prezzo nei prossimi anni. Un altro costo rilevante è però quello energetico. Partiamo dal fatto che dall’acqua – molecola inerte e a basso contenuto energetico – vogliamo ricavare idrogeno, che è invece una molecola ad alto contenuto energetico. Ebbene, per produrre un chilo di idrogeno servono 55 kWh di elettricità, più o meno il consumo medio di una famiglia italiana in una settimana».
Arriviamo dunque ai settori di mercato in cui potremmo utilizzare l’idrogeno verde. Dove sì e dove no?
«Non dobbiamo usare l’idrogeno per il riscaldamento degli edifici e neppure per le auto. Le auto a idrogeno, forse non tutti lo sanno, sono comunque auto elettriche con una cella a combustibile che utilizza idrogeno per produrre elettricità. Un veicolo di questo tipo consuma tre volte più energia di uno a batteria, per fare gli stessi chilometri. In più l’idrogeno in un’automobile deve essere compresso a 700 bar, circa tre volte in più rispetto alla pressione del gas nelle bombole di un’auto a metano. Per quanto riguarda poi le case, bruciare idrogeno in una caldaia è irrazionale. Una pompa di calore è sino a dieci volte più efficiente».
E allora dove lo possiamo usare?
«Bisogna ricorrere all’idrogeno solo laddove non vi sono alternative percorribili. Penso all’industria pesante: acciaierie, cementifici, vetrerie, cartiere. Tutti questi settori richiedono processi ad alte temperature. L’idrogeno è perfetto perché produce molto calore. C’è poi un altro caso in cui può essere una valida prospettiva: i combustibili sintetici. Sostituire il kerosene degli aerei è la sfida più grande per quanto riguarda la decarbonizzazione nei trasporti. Il kerosene ha una densità energetica enorme, rimane liquido fino a 50 gradi sotto zero. L’idrogeno è appunto un componente chiave, non l’unico, per fare combustibili sintetici».
A questo punto passiamo al ruolo dell’idrogeno nel 2022. Possiamo contarci per raggiungere maggiore autonomia energetica a breve termine?
«L’idrogeno al momento non gioca nessun ruolo perché per farlo serve elettricità dalle rinnovabili. Dovremmo quindi trovarci in una condizione di surplus di rinnovabili. Peccato che oggi le rinnovabili le usiamo tutte, perché ci servono. Fra dieci anni, quando avremo 100 gigawatt di rinnovabili installate succederà che, a mezzogiorno di una giornata qualunque, spesso anche invernale, avremo eccessi di produzione. A quel punto potremo alimentare gli elettrolizzatori con quell’eccesso, immagazzinando energia solare come energia chimica, sotto forma di idrogeno.».
In Sicilia, ad esempio, e in altre parti del Sud, le condizioni meteo faciliterebbero questo surplus. Il Mezzogiorno può diventare protagonista della transizione ecologica?
«Con la sua insolazione destinata persino ad aumentare col cambiamento climatico, il sud potrebbe veramente diventare l’hub di produzione dell’idrogeno verde in Italia. Poi, ovviamente, occorrerà avere centri di utilizzo vicini: bisogna produrre l’idrogeno nei pressi di dove è più richiesto. Trasportare idrogeno costa e stiamo anche parlando di una molecola più infiammabile del metano. Oggi vengono prodotti 75 milioni di tonnellate di idrogeno nel mondo, eppure sostanzialmente non c’è mercato. Chi lo produce lo usa in loco nelle raffinerie o per la produzione dell’ammoniaca, che serve per i fertilizzanti, fondamentali nella catena di produzione del cibo. Per spiegarmi, senz’altro il sud può puntarci, ma bisogna prima capire a quale sviluppo industriale si punta per il Mezzogiorno».
Quali sono i paesi leader nel campo dell’idrogeno? E quali strutture servono per produrlo?
«La Germania ha grandi aziende nel settore, così come Stati Uniti e Cina. L’Italia non deve però lasciarsi scappare l’opportunità: gli elettrolizzatori sono macchine complesse con una componentistica sofisticata dove l’industria italiana eccelle. Oggi però queste macchine hanno un problema: non gradiscono essere alimentate da elettricità non costante o intermittente, come quella delle rinnovabili. I più grandi elettrolizzatori al mondo sono infatti collegati a centrali idroelettriche. C’è necessità di innovare perché serviranno sempre più elettrolizzatori che dovranno rispondere a flussi non costanti».