Perché si fa fatica a riconoscere il razzismo legato all’età, che pure è molto diffuso ed è l’unica forma di discriminazione che rischia di colpire tutte le persone? E come provare a superarlo attraverso il linguaggio? E poi, gli studiosi di inclusione e diversità cominciano a mettere a fuoco il fenomeno della fluidità generazionale, che polverizza i confini generazionali, appunto, cancella il binarismo persone giovani/persone vecchie, offrendo una lettura alternativa dei diversi passaggi della vita. Può essere l’inizio di un #metoo anti ageismo? Ne parliamo con Alexa Pantanella, founder di Diversity & Inclusion Speaking, che costruisce iniziative di formazione e di ricerca sul ruolo del linguaggio come veicolo di inclusione. Docente a contratto dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e del Master in Gender Equality e Diversity Management della Fondazione Brodolini, è autrice del saggio Ben detto, un’immersione nel modo in cui usiamo il linguaggio e una guida su come renderlo più consapevole e rispettoso.
Il termine agesimo stenta a farsi conoscere nel nostro Paese. Dipende dal fatto che è una sorta di forzatura linguistica? Insomma, se parlassimo di etaismo sarebbe più riconoscibile? O, piuttosto, gli italiani fanno fatica a riconoscere che c’è una sorta di razzismo anche legato all’età, che hanno persino riserve a nominare?
Il termine ageismo sconta effettivamente due limiti. Il primo, riguarda il fatto di aver importato un termine dalla lingua inglese e averlo “italianizzato” con l’aggiunta di una “o” alla fine. Ma se concetti come sessismo e razzismo sono arrivati nella lingua italiana su stimolo di altre lingue – inglese e francese – per poi trovare una loro radice nella lingua italiana, lo stesso non è accaduto per ageismo. Questo ci porta, e forse in parte spiega, il secondo limite, che riguarda la scarsa conoscenza generalizzata di questo termine e di ciò che identifica. Eppure, Treccani lo riporta nel proprio dizionario online: “Forma di pregiudizio e svalorizzazione ai danni di un individuo, in ragione della sua età; in particolare, forma di pregiudizio e svalorizzazione verso le persone anziane”.
In realtà, anche i più giovani sono abbondantemente colpiti. Non è così?
Infatti, questa definizione che ne dà Treccani non è propriamente corretta, in quanto l’ageismo colpisce potenzialmente tutte le fasce d’età, non solo quella alta. E riguarda tutte le persone, indipendentemente dal genere, colore della pelle, provenienza, condizione di disabilità, orientamento affettivo e sessuale, etc. Insomma, è la forma di discriminazione più “democratica” che ci sia, eppure la si conosce molto poco, e se ne parla ancora meno. Soprattutto in Italia. Forse proprio perché non c’è, diversamente dal razzismo o sessismo, un gruppo sociale particolarmente colpito da questa forma di discriminazione. Manca, quindi, un gruppo che possa far sentire la propria voce su questo tema e aiutare a fare cultura. E così, l’ageismo finisce per essere percepito come uno di quei “fatti della vita”, con cui semplicemente fare i conti. La parola etaismo, invece, non è nemmeno contemplata nei dizionari italiani e, seppur più corretta da un punto di vista linguistico, è forse ormai tardi per una sua introduzione nell’uso corrente, che venga in aiuto della situazione.
Ci fai capire come il linguaggio che usiamo – congiunzioni, avverbi, ma anche interi modi di dire – continuano a perpetuare pregiudizi intorno alle due fasce anagrafiche dei molto vecchi e dei molto giovani?
Quando usiamo parole o espressioni che perpetuano ageismo, nella maggior parte dei casi non c’è consapevolezza, né volontarietà nel farlo. Pensiamo a quando, nel valutare una candidatura o un profilo da responsabile, ci chiediamo “quanti anni ha?” la persona oggetto della valutazione. O anche altre espressioni tipo: “È giovane, ma professionale”, oppure “Sei troppo giovane per…”. Tutte frasi che danno grande, forse troppa enfasi all’età anagrafica della persona, facendone il metro su cui valutare credibilità e professionalità. Con un possibile effetto di screditamento nei confronti della persona e un cammino professionale un pò più impervio. Anche verso l’età alta esistono forme subdole di ageismo. “Accidenti, quanta energia che ha per la sua età!”, “Nonostante abbia 55 anni, ha ancora voglia di mettersi in discussione” sono formule positive – si tratta di complimenti -, che però veicolano un’idea a senso unico di chi ha un’età più alta: persone con poca energia, scarsa creatività, bassa voglia di imparare e mettersi in discussione. Quanto può incidere, anche in modo inconsapevole, questo tipo di linguaggio sulla loro motivazione? Molto, fino a diventare una profezia che si autoavvera, in alcuni casi.
Ci fai capire, citando ricerche, come il linguaggio – verbale, ma anche iconografico,- influenzi in maniera diretta il percepito sulle età e, addirittura, la longevità stessa?
Alcune ricerche interessanti arrivano dal mondo della comunicazione pubblicitaria, che ha cercato di tradurre in numeri come viene rappresentata l’età. Uno studio pubblicato dal Geena Davis Institute documenta il giovanilismo dilagante nei codici visivi più ricorrenti: nonostante rappresentino circa il 18% della popolazione americana, le persone over sessanta sono presenti solo nel 7% delle campagne di comunicazione analizzate. Un’altra ricerca che ha analizzato la comunicazione pubblicitaria in Italia conferma evidenze analoghe, introducendo anche una lettura di genere: il 73% delle campagne mostra personaggi femminili che hanno meno di 35 anni, contro il 53% dei personaggi maschili. Tutto questo ci familiarizza con una rappresentazione dell’età sbilanciata in una sola direzione, quella dell’età bassa, non educandoci a un’estetica e a un racconto positivo dell’invecchiamento, che pure è una delle cose più naturali per l’essere umano. Anche perché l’unica alternativa all’invecchiare è morire quando si è giovani e non mi pare molto appetibile.
Quali consigli concreti possiamo dare per fare del linguaggio uno strumento che costruisca sinergie tra le persone e le generazioni?
L’abitudine di voler conoscere l’età di una persona è così radicata – pensiamo anche alla convenzione giornalistica di includere l’età negli articoli – che diventa difficile non solo eliminarla, ma anche metterne in discussione l’utilità. Questo perché conoscere l’età di una persona soddisfa quel bisogno di categorizzazione, e a volte comprensione, che qualunque essere umano ha. Anche la suddivisione della popolazione nelle diverse generazioni (Baby Boomer, Generazione X, Millennial etc), risponde a questo stesso bisogno. E ci illude di aver trovato un meccanismo di semplificazione e comprensione della complessità in cui ci muoviamo. Ma c’è un rischio che, a mio avviso, corriamo: l’idea sociale che abbiamo introiettato dell’età o della generazione a cui associamo una persona finisce per condizionarci molto più di quanto immaginiamo. Perché a ogni età associamo canoni, aspettative, modelli che utilizziamo per fare le nostre valutazioni (e trarre delle conclusioni) su di noi e sulle altre persone. E se, invece, provassimo a fare dell’età anagrafica un elemento meno dirimente, meno incasellante nei nostri scambi e nelle nostre valutazioni? E se abbracciassimo un approccio più fluido rispetto all’età, uscendo dal meccanismo binario “giovane/non giovane”?
Eccoci al fenomeno nuovo, che provoca riflessioni di rottura, perché punta a dare una lettura alternativa del tempo.
Effettivamente, negli Stati Uniti si sente parlare di un movimento di pensiero definito queer age: il rifiuto di conformarsi ai costrutti sociali dell’età, abbracciando una misurazione del tempo che vada oltre l’idea che sia lineare. Il tempo non è lineare e l’età non è binaria. La prossima volta che riceverete la domanda “Quanti anni hai?” provate a rispondere che avete un’età fluida. Non per rifiutare o nascondere la vostra età. Ma per far riflettere sui significati, le aspettative e, perché no, anche l’immagine, che le persone in automatico le attribuiscono. Pensiamoci la prossima volta che chiederemo o menzioneremo l’età di una persona.