Ansia, ansietà, ansimare, ansiogeno, ansiolitico, ansiosamente, ansioso >>> vedi angere.
Così dice il mio dizionario, da cui contavo di ricevere un aiuto, e invece mi crea altri problemi. Come se prendessi un ansiolitico e ti montasse l’ansia (paradossale? neanche troppo: nei bugiardini di alcune magiche goccine, tra le controindicazioni c’è proprio scritto “può produrre stati di ansia”).
Andiamo a vedere questo angere, ed ecco diversi compagni di viaggio: la celebre angina pectoris, quell’improvviso dolore al cuore con irradiazione a spalla, braccio, polso, combinato a un senso di esplosione imminente; e poi l’angoscia, quella stretta alla gola collegata a umore malinconico. E via crescendo, con l’angustia, la ristrettezza di spazio o di sostanza, o la grettezza/meschinità del pensare e del sentire. Insomma c’è sotto quel senso dello stringere, del soffocare, e poi quello stato di apprensione, d’insicurezza, di paura rispetto a un pericolo, quasi sempre con alterazioni fisiche collegate a difficoltà respiratorie.
Ed ecco qui. anche lei, l’ansia, pure proveniente da quell’angere, parola oggi in disuso nel suono, ma di gran moda nel significato. Se qualche decennio fa la si minimizzava, riducendola a sensazione passeggera, poco più che nervosismo fugace, negli ultimi anni l’ansia è riconosciuta come conseguenza della pressione sociale, e quindi affrontata sia a livello individuale sia in modo più aperto nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di aggregazione, con varie forme di supporto, comprese quelle online.
Come abbiam visto in una recente micro-antologia delle parole generazionali, tra l’altro, «che ansia!» è tra gli intercalari più diffusi del linguaggio giovanile. E senza scatenare psicosi collettive (pare che Millennial e Gen Z siano tra le categorie più ansiose della storia, oggi con il sovraccarico dell’eco ansia), possiamo ritenere positivo il fatto che
i giovani riescono con più facilità a dire: vado da uno psicologo per risolvere i miei problemi compulsivi; prendo un farmaco per migliorare il tono del mio umore; prendo un ansiolitico per contrastare i momenti di ansia. Senza essere costretti a dichiarare: ho un disturbo ossessivo-compulsivo; soffro di depressione; soffro di un disturbo d’ansia. (Giorgia e Gianrico Carofiglio, L’ora del caffè, pag. 29).
Ampliando lo sguardo > “salute”
Ampliando lo sguardo, proprio un senso di ansia può avvolgerci se scaviamo dentro il concetto di “salute”, sia fisica sia, appunto, mentale. Un senso di paura che solo in parte si attutisce se offuschiamo il significato della parola, e lo riduciamo al suono: “SALUTE!”. Magari vengono in mente il rito del salutare, del levare i calici per il brindisi, del rispondere a uno starnuto (consuetudine che risale addirittura al Medioevo, quando la peste era diffusa, e quindi l’augurio era letterale, mentre il nuovo galateo la ritiene una tamarrata).
Ma viene da scattare sull’attenti, se leggiamo la definizione di “salute” nella Costituzione:
Art. 32 – La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Sobbalziamo, poi, sulla definizione dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità:
uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale, non semplicemente l’assenza di malattia.
Sorvolerei sul “completo” (saremmo tutti sempre malati). Starei sulla positività della definizione: non è solo assenza di malattia, è proprio benessere. E il fatto che il nostro Ministero si sia chiamato per tanti anni “della Sanità”, espressione burocratica e rigidamente medicale, e oggi sia “della Salute”, pare in sintonia con quest’accezione più ampia e positiva.
Le connessioni tra ansia/salute, età e genere
Naturale è la connessione tra il nostro tema e l’età. Non solo perché, come disse il commediografo latino Terenzio, senectus ipsa est morbus, la vecchiaia è di per sé una malattia: frase cruda, eppure con un suo realismo. Soprattutto perché la sfida della medicina oggi non è più l’acuzie, su cui ha raggiunto una specializzazione notevole, ma la cronicità. C’è bisogno di dare soluzioni soprattutto alle persone anziane, in continuità di assistenza. La prestazione eseguita non chiude il rapporto: cura, ma spesso non guarisce. È quindi centrale la capacità di gestire e manutenere la relazione, attutendo l’ansia di pazienti e familiari per le precarietà della salute.
Un’altra connessione interessante è quella tra il tema dell’ansia, specie se collegata alla salute, e il genere, in particolare sulle credenze che questa connessione ha diffuso. Per esempio: che l’ansia sia condizione normale per le donne, deplorevole per gli uomini. Sulla salute, al contrario, è diffusa l’idea che le donne siano molto più resistenti e anche più resilienti, meno lamentose degli uomini.
Su questa connessione ha messo l’attenzione Gabriella Rinaldi in un recente convegno medico, in una relazione dal titolo Linguaggio di genere: parole che curano. L’attenzione è sul rapporto tra la lingua e la medicina di genere, più propriamente la “medicina genere-specifica”, ossia lo studio di come le differenze biologiche e socio-culturali influenzano la salute delle persone. Si tratta di una storia recentissima: fin dalle origini la medicina sembra aver avuto un’impostazione androcentrica (le donne sono “maschi mutilati”, grazie Aristotele per questa bella immagine), riconoscendo all’uomo il privilegio di rappresentare la norma da cui trarre conclusioni e su cui costruire soluzioni, e relegando la salute femminile alla specificità della riproduzione.
«Il mondo è costruito su dati maschili», dichiara l’attivista Caroline Criado Perez nel suo libro Invisible women, analizzando il gender data gap in molti ambiti del vivere, tra cui anche la salute. Per esempio, per una patologia ascrivibile a malattie comuni, spesso si propone una soluzione tenendo conto in prevalenza di casistiche al maschile. A partire dall’infarto: saltano subito alla mente il dolore al braccio sinistro e il fastidio al petto, ma le donne hanno spesso sintomi diversi, come bruciore di stomaco e dolore al collo. Differenze da rimarcare nella cura, e ancor prima nella ricerca! E il fatto che l’universo femminile sia soggetto a equilibri più volatili tra stati calmi e stati ansiosi, a più cambiamenti e cicli ormonali nel mese, che possono alterare i risultati delle ricerche, dilatando i tempi e quindi esigendo più soldi, stenta a sostenersi come giustificazione.
Un lento progresso ha preso il via con la quarta conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne del 1995 a Pechino, dove è emersa l’esigenza di una prospettiva di genere anche per la salute fisica e mentale, che comincia ad avere un buon riconoscimento anche in Italia. Dal 2016, i Quaderni del Ministero della Salute sulla medicina di genere sottolineano che va considerata la differenza cellulare tra corpo maschile e femminile per distinguere sintomi, diagnosi delle patologie, terapie e modalità di prevenzione, e quindi garantire equità e appropriatezza della cura.
Dopo tutto, ciò che è simile non è per forza uguale.
Tre auspici
Tre auspici per poter ragionare di ansia e di salute, in vari contesti – famiglie, luoghi di cura, università, giornali, eventi scientifici – potrebbero essere:
- che i professionisti della cura si sforzino di parlare più semplice
- che si consolidi tra loro la cultura dell’ascolto
- che si potenzi l’abilità nel “dialogare” le cattive notizie.
Vediamo di che cosa potrebbe trattarsi (qui il condizionale interpreta il senso dell’auspicio).
1) Parlare più semplice. Non nel senso di diretto, senza filtri: la rudezza del dottor House va bene al cinema, non negli ospedali. Nel senso di comprensibile. Certo, è un problema comune alle lingue settoriali (se n’è parlato a proposito di semplicità). Tra specialisti è efficace usare un linguaggio tecnico: legittime le parole come ioide o gastrocnemio in un dialogo tra patologi, angiogramma o ecodoppler tra radiologi, anancasmo o nomofobia (è la paura di non avere con sé il cellulare > no-mobile-phobia) tra psicologi. Ma se un medico mi dice, al bar: «Ho avuto un paziente affetto da ematoma circumorbitale», per intendere un occhio nero? Se mi catapulta in un quadro del Caravaggio, descrivendo la mia «cute pallida, sottile, normoelastica, disidratata, rossa alle estremità, con segni di flogosi…»? Se io dico «mi sento stringere qui al petto», e quello attacca con l’inquisizione, «per caso avverte anche cefalea intensa, olocranica, a localizzazione sovraorbitaria associata a fotofonofobia, nausea, talora emesi»? Puoi capire come mi si placa l’ansia.
2) Una cultura dell’ascolto. Una ricerca del British Medical Journal parte da una domanda: quanto tempo dedica un medico di base all’ascolto del racconto del paziente? Inteso come ascolto puro, monodirezionale, senza distrazioni da interferenze. Risultato inquietante: 22 secondi. Da lì in poi non è che il medico non ascolti più, ma le/gli entra in testa molto altro. Mica solo fatti suoi, magari un pro-memoria: devo ricordarmi che l’altra volta l’antibiotico le ha fatto male… ha qualche allergia? chissà se prende i farmaci… Ma parlandosi/ascoltandosi dentro, ascolta meno chi parla.
Una rinforzata cultura dell’ascolto potrebbe anche dare più corpo a un concetto di medicina legato alla narrazione, al valorizzare – ben oltre il sintomo – l’esperienza soggettiva della persona che soffre, con tutti i dettagli e le sfumature. In una visita medica, e ancor più in una seduta di psicoterapia, in un incontro di life-coaching, o in altri contesti di supporto a stati ansiosi, non si realizza solo l’incontro tra un sapere tecnico e l’oggetto dello studio, o tra sintomo e cura: sono sempre in gioco le emozioni e le esperienze individuali. Spesso anche solo l’ascolto di una storia di ansia e di dolore è già uno straordinario lenitivo della sofferenza.
3) Abilità nel “dialogare” le cattive notizie. Dialogare, sì. È infatti proprio il dialogo la chiave per rendere più efficace e meno penoso, per entrambi i poli, uno dei momenti più delicati della strategia di cura. Si potrebbe sciogliere, almeno in parte, quella barriera fatta d’imbarazzo, paura, senso d’inadeguatezza, che a volte costringe il personale medico-sanitario a trincerarsi dietro atteggiamenti duri, scostanti, o a frasi di circostanza che incrementano l’ansia, altro che attutirla.
È un’abilità che si può allenare, tenendo presenti pochi essenziali requisiti. Si parte – di nuovo – dall’ascoltare: capire come comunicare la notizia, dove, quando, con quali toni e atteggiamenti, con quale progressione, e poi dosare le parole, misurando il loro risuonare nelle emozioni.
C’è poi da strutturare il messaggio, avvolgendo la cruda descrizione tecnica tra un tono caldo iniziale, che instauri un feeling accogliente, e una riconciliazione finale, che orienti lo sguardo verso un futuro da costruire insieme, che sia una speranza possibile, una terapia pesante, o l’accettazione di uno stato immodificabile.
Utile anche proporre un percorso, non solo un intervento (parliamo di questo, poi coinvolgiamo i chirurghi; ora facciamo questo, vediamo come va, poi decidiamo se serve fare quello o quell’altro).
E poi tenere il linguaggio sull’avere, non sull’essere: lei ha, non lei è. Una gran differenza per chi deve accettare una patologia. Se noi “siamo”, non possiamo essere altro: siamo introversi, siamo svogliati, siamo malati. Identificare la persona con la patologia (è uno psicotico, un tossico, un diabetico…) tende a cronicizzare quella patologia, perché l’identità influenza le convinzioni e i comportamenti. Se noi “abbiamo” qualcosa, possiamo essere anche altro: abbiamo un atteggiamento ansioso in certi contesti, ma in altri possiamo essere più rilassati; se abbiamo una certa malattia, possiamo essere in salute per tutte le altre parti di noi. L’essere porta a un’assolutezza, e spesso profetizza stabilità. L’avere aumenta l’accettazione del messaggio e la probabilità di autocorrezione.
Sempre con lo scrupolo di dire la verità, senza pietose bugie o inutili indoramenti, né quell’atteggiamento autodifensivo che spesso riduce a pochi freddi passaggi un mero adempimento. Insomma, correndo il rischio di sostenere la fatica dell’empatia, il carico ansioso potrebbe rischiararsi almeno un po’ e aprirsi in un’ipotesi più o meno stabile, appunto, di salute.