«Tu non mi ascolti!»
«No, sei tu che non mi ascolti!»
«No, tu»
«No, tu»
E via così, per lunghi minuti. Un’escalation che vista da fuori è assurda, ma da dentro pare inarrestabile. Fino allo sbrocco.
Esperienza di tutti.
Eppure, gli dei ci han dato due orecchie e una bocca sola: una ragione l’avranno avuta.
Ma niente. A scuola è un intreccio di esercizi e compiti, scritti e orali. Poi in azienda si studiano le tecniche di comunicazione. Ma è quasi tutto sull’output. L’input si dà per scontato.
E quale scontato! Ascoltare è difficile. Anche nei contesti in cui è determinante.
Una ricerca inglese, per esempio, mostra la difficoltà dei medici nell’ascoltare i pazienti, senza lasciarsi distrarre da altre informazioni, rumori di fondo, interferenze. Solo i primi 22 secondi sarebbero di pure listening.
Il dato sconvolge. 22 secondi è niente. Speriamo non sia vero.
Comunque, verificare è semplice: in coppia, tu racconti un breve aneddoto personale, l’altr* ascolta e poi trascrive. Ed è subito un fiorire d’interpretazioni, di particolari tolti, aggiunti, riformulati.
Che abbia ragione William Ury, maestro di negoziazione, che nel suo TED The Power of Listening si chiede: che cosa succederebbe se dall’era della comunicazione passassimo all’era dell’ascolto? se a scuola insegnassimo ai bambini l’ascolto, oltre alla lettura?
L’ascolto è un atto volontario
Parliamo spesso di D&I, Diversità e Inclusione.
Ma ci sarebbe da distinguere la diversità dalla differenza.
Diversità è l’essere volto altrove (de-vertere): contiene cambiamento, pluralità, e va bene, ma anche il rischio del distrarsi, del cercare il nuovo anche solo per il gusto dell’eccitazione. Differenza va più a fondo: c’è il prefisso dis, che indica la fatica di una separazione, e il latino ferre, portare. C’è l’impegno di portare e sopportare vari elementi nel confronto, e magari accoglierli, per avere idee più precise e più complete.
La differenza, se inclusa grazie all’ascolto dell’altr*, dà una prospettiva nuova, non per forza più giusta o più sbagliata della nostra. Ci fa tendere a in-cludere, piuttosto che es-cludere. Chi non si allena all’ascolto perde la possibilità di coltivare nuove idee e ambizioni. È l’inglese open-minded. L’ascolto apre la mente.
A ben guardare, sarebbe utile anche distinguere l’includere dal comprendere. Bello, eh, l’includere: è offrire ospitalità e protezione. Ma il com-prendere ha in sé il prendere, l’accettare, il farsi carico, e il con, che depotenzia i rischi dell’univocità.
È infatti dal confronto che nascono le soluzioni. E per confrontarsi bisogna ascoltare. Da un buon ascolto nessuno perde, tutti ottengono qualcosa.
E c’è da distinguere anche il sentire dall’ascoltare.
Sentire è avvertire sensazioni: la comprensione è solo accennata. Ascoltare, invece, è legato all’attenzione consapevole (con-sape-vole, dove c’è il sapere, il volere, e il farlo insieme).
In inglese la differenza è ancora più marcata. Roland Barthes definisce hearing un atto psicologico involontario. Non scegliamo quando sentire, è un atto automatico del cervello. Listening è invece un atto volontario: è quando decidiamo di mettere testa e cuore in ciò che abbiamo scelto di ascoltare.
Lezioni da Sanremo
Il Festival della canzone merita il ruolo di buona palestra di ascolto. E vorrei vedere.
Sì, ma non solo nel senso di armonia tra testo voce e orchestra. Anche nel senso di ascolto degli umori sui temi caldi della società.
2020: vince Diodato con Fai rumore, «Ché non lo posso sopportare questo silenzio innaturale tra me e te…»: preghiera di abbattere quei silenzi che portano a incomprensioni e rancore.
2021: trionfano i Maneskin coi loro consigli per un silenzio saggio e ricettivo: «Parla, purtroppo la gente parla, non sa di che cosa parla…».
2022. Nel suo monologo sull’unicità Drusilla Foer (VIDEO) invoca: «Vi chiedo un regalo: tentiamo il vero atto rivoluzionario, che è l’ascolto, di se stessi e degli altri».
Ascoltare se stessi
«Fragilità, il tuo nome è donna.»
La frase di Amleto è riferita alla madre Gertrude. Va beh, lì si può capire: neanche un mese dopo l’assassinio del marito quella sposa il cognato, il fratello del re, che poi si scopre essere proprio l’assassino.
L’alpinista Tamara Lunger, invece, nel suo Il richiamo del K2, dichiara lei stessa la propria fragilità. Non sopporta sentirsi dire di aver la forza di un uomo; anzi, squaderna i propri limiti di essere umano. Certo, anche di donna, in alcuni momenti fiaccata dal ciclo. È quella consapevolezza che le ha fatto rinunciare alla salita invernale al K2, e così riconquistare la vita, al contrario di alcuni suoi amici alpinisti che l’hanno persa. Lì dove l’ossigeno scarseggia, e ogni passo è un’impresa, lì dove la Natura dispiega tutte le sue forze, proprio lì, ascoltarsi nel profondo, e accettarsi, è la condizione che salva la vita.
Ascoltare per ascoltare. Punto.
Bisogna ascoltare per ascoltare. Punto. Non per rispondere, o giudicare.
Spesso invece ascoltiamo quanto ci basta per etichettare. Ed è proprio quando formuliamo un giudizio su una persona che smettiamo di ascoltare. Ci fermiamo a quel che basta per dibattere, combattere, difenderci. E se nasce la voglia di scontrarsi, svanisce il desiderio di capirsi.
E per capire
Alcune parole meritano ascolto più di altre. Sono quelle che scaldano il cuore, danno energia, positiva o negativa, e determinano la temperatura emotiva delle nostre conversazioni. I linguisti indicano per ciascuno di noi circa 250 hot words, e di queste circa 50 key words, che il cuore proprio ce lo aprono, come fanno le chiavi, oppure ce lo chiudono. Sono i nomi dei nostri cari, dei nostri luoghi, dei valori che animano la nostra vita.
Sono le parole più importanti da ascoltare e registrare, quando conversiamo con qualcuno.
Altro buon esercizio, nell’ascolto, è comprendere in che modo chi parla ordina la struttura logica della frase. Per esempio, c’è chi afferma subito il proprio concetto, e c’è chi non può fare a meno di una premessa. C’è chi espone la causa prima dell’effetto, «c’era traffico, e siamo arrivati tardi», e chi il contrario, «siamo arrivati tardi perché c’era traffico». C’è chi quando presenta un progetto ne elenca subito (a volte soltanto) i vantaggi, e chi invece ne illustra prima i punti deboli, lasciando ai benefici l’onore della conclusione. Riconoscere come l’altra persona struttura la frase ci rende più facile avvicinarci nel dialogo.
Il linguaggio esclusivo: come gestirlo con buone domande
Guardando dentro la parola “ascolto” troviamo anche idee per fare buone domande.
Domande e ascolto: uovo o gallina? Son le domande che attivano l’ascolto o è la predisposizione all’ascolto che ci spinge a fare domande, anziché inchiodare affermazioni, esclamazioni, sentenze?
Fare buone domande è un modo gentile e inclusivo di concepire le relazioni interpersonali. Una leadership che deriva dal porre buone domande vale in moltissimi ambiti professionali, dal giornalismo all’investigazione, dalla psicoterapia alla vendita, dalla politica alla didattica, alla medicina. Le buone domande scavano, ricercano, fanno sorgere dubbi, e quindi consapevolezza di certe complessità.
Porre domande è un buon modo anche per depotenziare, e se possibile reindirizzare, molte espressioni tipiche dell’arroganza, del bullismo irrispettoso e discriminatorio, dell’esclusione.
Per esempio, nelle frasi
- Tutti sanno che gli uomini sono…
- Tutti sanno che le donne sono…
c’è un soggetto non specifico, tutti, che evidenzia una generalizzazione. Facendo alcune domande, possiamo risalire – e indurre chi parla così a fare lo stesso – all’esperienza originaria della persona, attraverso la domanda Chi, precisamente, sa che…?
La risposta permetterà di risalire a una o più persone specifiche alle quali chi parla si riferisce, riducendo quindi la generalizzazione. Oppure la spingerà a rivedere certe convinzioni.
Situazioni simili
- Gli africani … Sicuri che proprio tutti gli africani…?
- L’hanno assunto perché è disabile > Pensi che se mi procuro una disabilità assumano pure me?
- Mai fidarsi degli omosessuali. > Proprio neanche una volta ti sei fidato di una persona con un orientamento sessuale differente dal tuo?
- Quel trans mi fa paura > In che cosa, in particolare, hai paura d quella persona?
- Per quella posizione un maschio è la soluzione migliore. > Migliore rispetto a che cosa?
- Stefano è troppo vecchio per quell’incarico > Intendi troppo vecchio in senso anagrafico o per il valore della sua esperienza?
- Giovanna è costretta in carrozzina > Sicuri che sia “costretta”? La carrozzina non è proprio il mezzo che le permette di muoversi?
Domande che, anziché controbattere, e quindi innescare conflitto, accolgono il pensiero dell’altra persona, dolcemente, e poi dolcemente smussano, ricontestualizzano. A volte correggono.
LISTEN: l’anagramma di SILENT
«Per me non è importante che tu ci sia sempre: devo sapere che quando sei con me, ci sei davvero.»
Così urla Alice, in Strappare lungo i bordi, il fumetto di Zerocalcare, poi serie tv Netflix. La richiesta è forte: Alice vuole un ascolto puro e consapevole. Ha bisogno di qualcuno che sappia distinguere quando è il momento per parlare, e quando quello per ascoltare. O, meglio, per tacere.
Che LISTEN sia l’anagramma di SILENT, infatti, è ben più di un gioco linguistico: è un fatto.
Viviamo dentro un brusio continuo: nel marasma dei contatti al lavoro, a cena, in palestra, in viaggio, nelle storie di Instagram, negli stati di Facebook, nelle spunte di Whatsapp. Ci siamo dimenticati come si ascolta.
Quando si ascolta, bisogna tacere. E non fare altro. Essere lì, in quel momento. Bisogna saper aspettare, lasciare all’altra persona il tempo per esprimere i propri pensieri, senza fare facce, senza incalzare.
Si ascolta anche con gli occhi, con le mani, con tutto il corpo. Nella comunicazione in presenza, e ancora di più in quella a distanza, che caratterizza questi nostri strani anni.
La postura è determinante nell’ascolto. Una postura fisica e mentale, che favorisca il vuoto e che si lasci riempire dalle parole, dai gesti, da toni di chi parla. Perfino dai suoi silenzi, a volte così duri da reggere.
Non c’è peggior sordo
Di chi non vuol sentire, certo.
Ma c’è anche chi vuole proprio sentire bene, e allora lo fa, il sordo.
Ricordiamo, in Qualcuno volò sul nido del cuculo, il dialogo tra Randle e Grande Capo, il gigantesco indiano, recluso nel manicomio, che da anni finge di essere sordo.
R – Ehi, vuoi una gomma?
GC- Grazie.
R – Disgraziato, Grande Capo! Ci senti pure?
GC – Eccome.
R – Che mi prenda un colpo! E loro, tutti loro credono che tu sei sordomuto, eh? Li hai fregati tutti!
Un mito. Ma per ascoltare meglio possiamo scegliere altre vie. Allenarci, per esempio.
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Per chi non ne avesse abbastanza:
a) 7 allenamenti per un buon ascolto > video, 15’
b) un repertorio di domande (questioning) > video, 24’
c) l’abstract del libro Due orecchie, una bocca