Come? “Ri-spetto”? Pure qui, il trattino?
Sì, perché le parole composte, ad aprirle e guardarci dentro, facile trovarci valori preziosi.
Re-spicere. Latino, riguardare, aver riguardo, considerare importante. Con il verbo spicere, padre delle parole specie, speciale, specchio, aspetto, cospetto e decine di altre. E la particella re, che indica ripetizione, continuità, e (forse) reciprocità.
Ora possiamo sviluppare il ragionamento.
Lati oscuri
Sgombriamo alcuni lati oscuri del significato di rispetto.
Cattive interpretazioni, che hanno portato nella storia a varie degenerazioni.
Uno è quella forma di devozione, preoccupazione, a volte angoscia, che l’oppresso prova nei confronti dell’oppressore. Senza toccare gli aspetti patologici (tipo la “sindrome di Stoccolma”, dove la vittima finisce per amare il carnefice), basti ricordare che in psicologia il rispetto è un sentimento generato insieme dalla paura e dell’amore. Pensiamo al cristiano timor di Dio. Pensiamo alla devozione verso i capi tribù, quelli del villaggio nella foresta o del gruppo di amici del quartiere, della scuola, del campo sportivo, dove possono annidarsi forme di prevaricazione e di bullismo. Pensiamo al gruppo mafioso, dove rispetto è sottomissione dell’affiliato al capoclan. Ma anche alla quotidianità di molti uffici, con quel regime quasi militare per cui si battono i tacchi al passare del capo, si evita di contraddirlo e si ride alle sue battute. Tutto nel nome del rispetto.
Da un lato, dunque, una leadership autoritaria che esige rispetto; dall’altro il suo speculare: venerazione della persona rispettata, accettazione passiva del suo volere.
Un altro lato oscuro della parola rispetto è che è una nominalizzazione. È il verbo rispettare, trasformato in nome. Ed è un problema quando prendiamo un verbo, che è dinamico, che muove le azioni, e lo spegniamo in un sostantivo, in un nome, statico, vago, generico.
Non c’è più rispetto, neanche tra di noi, canta Zucchero. Che significa? io non rispetto te? tu non rispetti me? o entrambe le cose?
La nominalizzazione è pericolosa: cementa le categorie mentali. Pensiamo a come chiamiamo le persone con patologie (i tossici, i depressi, i diabetici), o con disabilità (i ciechi, i sordi, gli zoppi, i paraplegici). O gli orientamenti religiosi (i cattolici, i musulmani, gli ebrei, gli atei, gli agnostici…). O gli orientamenti sessuali (etero-, omo-, trans-, cis-, LGBTQ+). Le fedi sportive: milanisti e interisti, romanisti e laziali, juventini e resto del mondo. Pensiamo agli scontri ideologici di questi mesi, che non sono più tra opinioni, ma tra identità: i “No Vax”, i “No mask”, i “No Green Pass”. Persone contro persone, stigmatizzazioni. Che si trasmettono nelle famiglie, nei gruppi organizzati, e diventano modi di essere; pregiudizi, più o meno inconsci.
Un eroe: Forrest Gump
Un esempio di positività, contagiosa, pervasiva, che lo trasforma da escluso in ben più che incluso, addirittura in inclusivo. Forrest Gump. Un esempio di rispetto sia dato sia ricevuto.
Forrest ha gravi problemi di postura e uno sviluppo cognitivo inferiore alla media. La madre lo convince che non dovrà mai permettere agli altri di considerarsi superiori a lui.
Fedele a questa idea, diventa testimone di importanti avvenimenti della storia americana, incontrerà da Presley a Kennedy, da Dylan a Nixon, sarà prima stella del football e poi del ping pong, pure con la responsabilità di distendere il clima tra Stati Uniti e Cina, poi della corsa coast-to-coast (corri, Forrest, corri).
In Vietnam è lui che salva diversi commilitoni, compreso il tenente Dan, che poi sarà ferito e perderà le gambe e lo maledirà per aver cambiato il suo destino di guerriero, ma che poi diventerà suo socio in affari. È lui che tiene costante la passione per Jenny, amata fin da bambini. È lui che, libero da preconcetti, sa volgere in positivo molte disgrazie e guadagnarsi il rispetto di tutti. Con un sorriso a volte incosciente, e con quella leggerezza consentita da uno sguardo aperto sugli altri, ben simboleggiata dalla piuma che apre e chiude il film.
Rispetto è apertura, attenzione per l’altr*
Come nella vita di Forrest, rispetto è attenzione per l’altr*. Rispetto per la persona, non solo per il ruolo che riveste.
In linguistica è la fase chiamata “calibrazione”: studio dell’interlocutore, dei suoi modelli di conoscenza e di rappresentazione del mondo. Calibrare significa “usare il calibro”. Prendere le misure, senza giudicare. Osservare e ascoltare l’altra parte.
C’è un verbo in inglese che esprime bene questo concetto: to notice; è più che osservare, è notare il dettaglio, accorgersi, prenderne consapevolezza. Per questo occorre tenere il più possibile in sospeso i nostri filtri cognitivi, le nostre convinzioni, che ci porterebbero in fretta a etichettare, giudicare, scegliere se escludere o includere.
Una volta, intervistando il linguista John Grinder, gli ho chiesto come fare a sospendere i miei filtri. «Mettiti a terra di fronte a un bambino di un anno, che sta facendo le esperienze più importanti della sua vita. Fa’ tutto ciò che fa quel bambino. Capirai cosa significa sospendere i tuoi filtri».
Rispetto per i generi dell’umanità
In molti ambienti, per fortuna, da tempo le differenze sono considerate una ricchezza, un valore che ha ricadute positive sulla società nel suo complesso. Differenze di cultura, religione, età, orientamento sessuale. Anche differenza di genere, pur se con molti retaggi del passato: «Avete mai sentito qualcuno chiedere a un manager maschio come fa a coniugare lavoro e famiglia?», ha chiesto al pubblico una ministra centro-americana durante un recente World Economic Forum.
Son passati 8 anni da quando Emma Watson, attrice e modella inglese, ha lanciato alle Nazioni Unite la campagna HeforShe, che coinvolge gli uomini nella lotta contro la discriminazione femminile. «Ho deciso che ero femminista, ma ‘femminismo’ è diventata una parola impopolare. La parità di genere è un fatto di libertà, che riguarda tutti. Vi invito a farvi avanti, a farvi vedere e a chiedervi: se non io, chi? Se non ora, quando?»
E per i generi della lingua
Piaccia o no, la lingua italiana è gender marked: a differenza dell’inglese, dove molte forme sono neutre o ambivalenti, per noi i nomi, gli aggettivi, le persone dei verbi, e tutti i pensieri che stanno là sotto, sono maschili o femminili. E per consuetudine – non per una legge divina – il plurale misto diventa maschile.
È vero che ferve il dibattito sull’asterisco (ci sto provando, non riesco dappertutto), come sullo schwa, quella vocale intermedia tra a ed e, indicata graficamente con una “e” rovesciata > ə.
Evito d’impegolarmi in questo dibattito. Mi basta ricordare la posizione molto dura presa dall’Accademia della Crusca contro lo schwa (che poi, chissà che novità, c’è nell’inglese come nel napoletano > tuttə quantə, tuttə cosə…).
E mi basta ricordare, al di là del plurale inclusivo, quanti stereotipi conserviamo anche noi “progressisti”. Un uomo di strada è una persona semplice; una donna di strada? Un uomo disponibile è gentile; una donna disponibile? Un uomo di mondo è un signore; una donna di mondo? E via: massaggiatore, buon uomo, uomo allegro, al femminile come suonano?
Il linguaggio è sessista, e tocca impegnarsi, per depotenziarne le conseguenze.
Per non dire dell’infinito dibattito sui nomi delle professioni. Perché il segretario è al vertice di un partito, mentre la segretaria porta il caffè? Perché la giurista si fa chiamare avvocato e non avvocata, che è un aggettivo, o meglio, un participio passato (advocatus, advocata, colui/colei che è chiamato/a a…), e quindi si lega al genere della persona? Come chiamiamo la donna-medico? dottora? medica? Medico è un aggettivo: esistono il presidio medico e la guardia medica. Perché quando diventa sostantivo va al maschile? È forse il ruolo che richiede i pantaloni? o è solo la consuetudine che, come tutte, si può cambiare? E poi ministra, professora, assessora: è solo questione di orecchio (Angela Merkel comunque è stata sempre cancelliera). E poi presidente, e studente, che sono participi presenti, uguali per tutt*.
Ma una battaglia fissata su ministra e assessora avrebbe il respiro corto. Quello che stiamo vivendo è un momento magico per il rispetto tra i generi, anche grazie a qualche provocazione.
Interessante il caso dell’università di Lipsia. Tempo fa il rettore ha stabilito, d’imperio, che per un mese in tutti i documenti – circolari, locandine, bandi, certificati, persino le mail – i plurali si sarebbero scritti solo al femminile: le docenti, le studenti, le ricercatrici, per intendere chiunque (e il tedesco ha il genere neutro!). L’obiettivo era omologare le differenze? Ma quando mai. Solo farci attenzione.
Possiamo citare altri due esperimenti: Scrivere donna, una ricerca in cui 99 donne che scrivono, per lavoro o per passione, analizzano le particolarità della scrittura femminile. E poi Caratteri di donna, concorso letterario organizzato da Comune e Università di Pavia, fino a qualche anno fa dedicato alle donne autrici, ora aperto a chiunque. L’obiettivo è andare oltre gli stereotipi: osservare, comprendere, dare e ottenere rispetto.
Camminare nelle scarpe dell’altr*
Un video molto usato nei corsi di comunicazione s’intitola Change your words, change your world. Una persona cieca, con il cartello “Sono cieco, aiutatemi”, non ottiene elemosine. Passa una ragazza, gira il cartello e scrive: “È una bella giornata e io non posso vederla”. E piovono monetine. Il primo messaggio crea distacco, l’altro coinvolge, emoziona. Attira i passanti nei panni della persona cieca.
Rispetto è infatti mettersi nei panni dell’altr*. O, come si dice in inglese, camminare nelle scarpe dell’altr*, che è più intenso.
Cosa accade se la storia di Cappuccetto rosso è raccontata dal lupo? Tutti solidali con il lupo? E se l’Olocausto è raccontato da un aguzzino di Dachau?
Come avrà fatto Aretha Franklin a stravolgere la canzone Respect, quella con il ritornello scandito, R-E-S-P-E-C-T? Nel testo originale di Otis Redding (1965) è un uomo che chiede alla compagna di rispettarlo; due anni dopo lei ribalta il punto di vista, e ne fa un inno dei movimenti femministi e contro le violenze sulla minoranza nera, poi allargato all’intera società (ancora attuale nella versione di Blues Brothers, 1980).
E cosa accadrebbe se i maschi subissero, anche solo per un giorno, le conseguenze di una società sessista e violenta governata dalle donne? Lo immagina la regista francese Eléonore Pourriat nel corto Majorité Opprimée, diffuso qualche anno fa su YouTube e accolto con il plauso della stampa internazionale. Ipotesi che non occorre realizzare: osservarla, però, aiuta a viverla con rispetto.
Rispetto è reciprocità?
Prima di affrontare la domanda, guardiamo dentro anche la parola reciprocità. Ancora latino: recus, indietro, e procus, avanti. Reciproco: ciò che va e torna.
Quindi, il rispetto dev’essere reciproco?
Beh, tutto ciò che è reciproco inizia con un atto di fede. Come la fiducia, come l’amore, il chiedere scusa, il disarmo. Come il rispetto. Non siamo mai sicuri che quel che diamo torni. Ma se inneschiamo il cambiamento, la reciprocità ha l’occasione per accendersi.
Ben inteso, mica in eterno. C’è un tempo per il rispetto gratuito. E un tempo per valutare se ha senso.
Ma alla lunga, sì, il rispetto è reciprocità, tra persone. Da ogni parte si guardi, capi o collaboratori, insegnanti o studenti, allenatori o atleti, medici o pazienti, giovani o anziani, maschi o femmine o altr*. In ogni situazione, casa, lavoro, comando di polizia, sala d’attesa di ospedale.
Rispettare un ruolo, una funzione, una divisa, rischia di diventare esclusivo.
Rispettare la persona è reciproco, e inclusivo.