Respons-abilità.
Sì, sì, col trattino.
Proprio per scandire l’etimo.
Adesso, non è che tutte le parole di queste pagine sul linguaggio inclusivo dovranno avere il trattino, che altrimenti non se ne coglie la storia. Ma per alcune è necessario.
Come per in-clusione, del resto, in cui il trattino, pur senza obbligarci a esplorarne i vari contesti semantici (matematica, biologia, retorica, scuola), subito ci suggerisce qualcosa: il tener dentro, il comprendere. E quindi in-clusivo è comprensivo, che sia la persona diversa da me o la bottiglia di vino nel menu. E quindi, se è preceduto da in, cludere significa offrire protezione, rifugio, ospitalità, accoglienza. Vicinanza. Mentre nell’es-cludere c’è espulsione, rifiuto, distanza. E nell’ac-cludere c’è il documento da mettere con le scartoffie. Nel re-cludere, il privare qualcuno della libertà.
Se poi ne casca dentro un altro, di trattino, nella parola, a meglio riconoscere i diversi elementi che la costituiscono, ecco che già parte un’altra storia.
Magari diverse storie. Eccone una, per cominciare.
“Dovevi salirgli sul taxi”
1985: Avevo appena iniziato a lavorare in un giornale.
«Lei sa fare interviste?», mi chiede il capo, a bruciapelo. «Certo», giuro, millantando esperienza e passione.
Mi manda a intervistare un vip, un creativo della Milanodabere che a quei tempi camminava a due spanne da terra. Codazzo adorante dietro, e davanti un mare sempre pronto ad aprirsi.
Arrivo all’appuntamento in largo anticipo. Passa un quarto d’ora. Mezz’ora. Inizio a sudare e innervosirmi. Un’ora. Chiedo alla segretaria (chissà perché avevo già pensato, senz’averla ancora vista, a una segretaria, non un segretario. Ma era presto per l’uso non sessista della lingua).
«Il dottore è impegnato in un meeting importante, sarà qui a minuti».
(Ok. Niente scuse: faran così i vip.)
Altra mezz’ora. Mi arriva, leggiadro, dito sull’orologio: «Facciamo in fretta, mi parte un aereo tra un’ora e pochi».
Dal mix imbarazzo + stizza mi escono solo domande idiote. E il pezzo che ne risulta ne rivela la pochezza.
«Tutto qui?» tuona il capo. Mi arrabatto in un rosario di giustificazioni, ma niente, lui branca una lavagna e ci scrive sopra, cubitale:
RESPONS >>> >>> >>> >>> ABILITÀ
«Capisci? È l’abilità di dare risposte a chi ti fa domande. Ma è anche l’abilità di portarle a casa, le risposte, se sei tu quello che deve fare le domande! Se non vuoi una risposta stupida o vaga, non fare una domanda stupida o vaga!».
E sciorina una lista di aggettivi per la combinazione domanda-risposta.
«Dovevi sdraiarti sul pianerottolo, salirgli sul taxi, fargli perdere il volo! Dovevi portare a casa un risultato! Non sei stato responsabile!».
Chi ben comincia.
L’abilità di rispondere
Ecco il primo significato del trattino. Con i valori di capacità, disponibilità, impegno.
Rispondere. Che pure lì: è il latino re-spondere, promettere, impegnar la propria fede (vd. sposo), con il re- che indica tanto indietro, reciprocità del dialogo, quanto ripetitività, costanza, il farlo tante volte.
Quindi, la responsabilità è l’attitudine a rispondere. Non con la protervia della battuta pronta, ma con la volontà di essere lì, e fare la propria parte: è l’esserci, anche quando non si sa bene che cosa rispondere. Perché ci sono domande cui rispondere è un’impresa. Esempi?
Domande difficili sull’inclusione
- Come dovrebbe essere una società davvero inclusiva? un luogo di lavoro inclusivo? una scuola inclusiva? una chiesa inclusiva?
- Nomina sunt consequentia rerum, dicevano i latini: i nomi sono conseguenze delle cose. Il linguaggio deriva dalla realtà. Ma è sempre così? Non anche il contrario? Non è che se comincio a chiamare un concetto, un comportamento, in un modo differente, dopo un po’ quel concetto e quel comportamento cambiano significato e valore nella comunità? Pensiamo al gran lavoro che è in corso sul linguaggio della disabilità, per esempio. Cambia l’effetto se in un dialogo metto un significato in un aggettivo, collegato a “persona”, tipo “persona cieca”, “persona con disabilità”, oppure in un sostantivo, magari al plurale, quasi a stigmatizzare una categoria? (> i ciechi, i sordi, gli zoppi, i disabili, e poi anche gli omosessuali, gli atei, i neri, i gialli, i musulmani, gli ebrei, e ancora i tossici, i depressi, gli amputati…)?
- E qual è il confine tra la responsabilità, l’inclusione, il rispetto da un lato per le diversità – che sarebbe forse più utile chiamare differenze – , e, dall’altro, il pietismo, la pseudo-compassione…
- E, stando sull’attualità, si son chiuse da qualche mese le Paralimpiadi: e rieccoci con una grande attenzione alla disabilità e all’inclusione. Ne riparliamo tra 3 o 4 anni, oppure i grandi eventi influiscono davvero sul cambiamento del senso comune?
Certe domande magari neanche la trovano una risposta certa. Ma se aiutano a tenere acceso un pensiero, è già buona. Molto buona.
Res-pons-abilità: il “peso” della cosa
Se poi spostiamo appena il trattino un posto in avanti, ecco un altro etimo, pure latino: res-pondus.
Sentire il peso della cosa, coglierne la grandezza, reggerne il valore, incarnarne il senso.
E pur senza impelagarci nei meandri del significato filosofico (a scelta: Aristotele? Weber? Jonas?), son lì a portata di mano le sfumature del quadro giuridico, civile o penale o amministrativo:
… la situazione di obbligo gravante su un soggetto e che s’instaura o per inadempimento o per qualunque atto illecito doloso o colposo…
… conseguente alla commissione di un reato…
… dello Stato o di persone giuridiche o pubbliche per illeciti dolosi o colposi…
… coinvolgimento personale di chi commette un reato, perseguibile legalmente con sanzioni proporzionate all’illecito…
C’è poi la responsabilità politica, del titolare di una carica elettiva nei confronti degli elettori, o quella del Governo verso il Parlamento. C’è quella giornalistica, del direttore responsabile, che guida e rappresenta il giornale stesso, rispondendo di fronte alla legge di ogni parola pubblicata.
C’è quella morale, di chi è coinvolto in atti illeciti per posizione occupata, per le affermazioni fatte o per la condotta mantenuta.
Quella automobilistica, l’RC auto su cui competono le assicurazioni, per danni a persone o a cose provocati dai veicoli.
Quella economica, della SRL, nella quale i soci rispondono soltanto della quota sottoscritta, mentre verso i terzi risponde la società col proprio patrimonio (e dagli, col linguaggio di genere: chissà perché se ci son di mezzo i soldi è patri-monio, se son fiori e abiti e confetti è matri-monio).
Quale che sia il contesto, c’è sempre un peso da sopportare, una fatica da prendersi in carico.
Sarà per questo che fa così paura?
Ho sentito spesso questa paura nell’espressione il mio responsabile. Dubito ci sia qualcuno che è responsabile al posto mio. Non c’è modo di sfuggire alle conseguenze delle nostre scelte. Ed è raro che le nostre scelte siano neutrali.
La responsabilità è sempre limitata
The limits of my language means the limits of my world.
Così Ludwig Wittgenstein, nel Tractatus logico-philosophicus (1921).
Se non lo so dire – spiega il filosofo-linguista – non ce l’ho in me.
Che questo limite valga anche per la parola responsabilità?
«Ma chi se la piglia la responsabilità?»
Quante volte abbiamo ascoltato o detto questa domanda? Ospedali, scuole, uffici pubblici. Ma anche uffici privati: tròvamene uno disposto a restare col cerino in mano. Magari per timidezza. O magari per deontologia: pensiamo a psicologi, avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti, coach. Loro leggon le situazioni, consigliano. Altra cosa è prendersi la responsabilità di guidarle.
(alcuni, eh, mica tutti! che poi non si dica che “inclusione” sia fare di tutte le erbe un fascio)
Faber est quisque fortunae suae, dicevano un tempo. Oggi è It’s up to you. Significa che ognuno se la deve cavare da sé? Se mi tocca rischiare un po’ di più del solito, saprò prendermene la responsabilità? E se sbaglio magari solo a parlare? Se mi scappa una battuta pessima, una stigmatizzazione (il cieco, lo storpio, il disabile… vedi elenco precedente), saprò farmene carico? Se mi esce uno di quei dannati pregiudizi inconsci con cui sono stato educato, e da cui potrei anche provare a emanciparmi una buona volta, saprò chiedere scusa e rimediare?
(eh, sì, chiedere scusa, altro bel tema da niente)
Realtà o rappresentazione?
Altro flash dalla memoria.
Sono a un convegno sulla comunicazione pubblica, titolo “La bella e la bestia”.
Chiaro il simbolismo, per me: la bella è la comunicazione, la bestia è la burocrazia.
Il chairman ha un’idea diversa: «La bella è la burocrazia, la bestia è il cittadino rompiscatole.»
Anche perché mettersi nei panni del cittadino, o dell’altro, in genere – nelle sue scarpe, come dicono gli inglesi – è sempre una fatica. Son così scomode, quelle scarpe. E sto così bene nelle mie.
Quindi mi convinco che ciò che dico io è vero, è la realtà oggettiva, e non solo la mia rappresentazione linguistica della mia rappresentazione mentale, soggettiva, della realtà.
Nell’ottica di una responsabilità inclusiva, poi, ci sarebbe da riflettere sulla percezione del messaggio, sulla sua comprensibilità, e prima ancora sulla sua accettabilità da parte dei destinatari, sul suo impatto, razionale ed emotivo, sulla sua efficacia in quella particolare relazione.
Ma è nella responsabilità di chi scrive anche rispettare il tempo di chi legge.
Grazie, alle prossime.