Si può raccontare la scienza in modo tale da incoraggiare bambine e ragazze ad abbracciarla come passione, come campo di studio, come aspirazione elettiva? Si può costruire un linguaggio capace di portarsi via tutti i pregiudizi che oggi ostacolano le professioniste nel diventare le leader che meritano di essere dentro le università, le aziende, le istituzioni scientifiche? Si può promuovere un nuovo storytelling della scienza che aiuti a raggiungere la gender equality, auspicata ormai ovunque sul pianeta?
La Giornata internazionale delle ragazze e delle donne nella scienza (11 febbraio) riporta sotto l’attenzione del mondo numeri che, anche nel nostro Paese, mettono i brividi. Esempi. Mentre il PNRR consegna il futuro nelle mani di tecnici, programmatori, scienziati, innovatori digitali ribadendo che i lavori di domani sgorgheranno dai pozzi delle STEM, secondo Save the Children tra gli studenti con un alto rendimento scolastico appena una ragazza su 8 pensa che potrà diventare ingegnere o, comunque, fare una professione scientifica, mentre tra i maschi è uno su 4. E nelle università, in campo STEM appena un docente su cinque è una donna.
Eppure, questa giornata porta alla ribalta anche una moltitudine di donne, ragazze, e pure uomini che si danno daffare per ribaltare stereotipi e discriminazioni, attraverso think tank, collettivi, associazioni. Come She is a scientist, associazione di promozione sociale che punta sul linguaggio e sulla comunicazione per trasformare la percezione delle donne nella scienza. Incontriamo la presidente, Nicole Ticchi: 36 anni, formazione in chimica farmaceutica, per diversi anni si è dedicata alla ricerca industriale all’Università di Bologna; quindi, ha scelto di dedicarsi alla comunicazione scientifica istituzionale nell’Health Care.
A che punto siamo nel contrasto agli stereotipi di genere nella scienza?
Noi facciamo un lavoro costante, consapevoli di muoverci tra stereotipi radicatissimi e difficili da smantellare. Ha fatto caso che quando una scienziata compie una scoperta molto significativa il web, la tv, i giornali lanciano come notizia il fatto che si tratta di una donna, mettendo completamente sullo sfondo la scoperta in sé?
Il messaggio che trasmettono è l’eccezionalità del connubio donna-successo scientifico.
Assolutamente. E noi tutti assorbiamo questa associazione, senza avere consapevolezza del fatto che è, appunto, uno stereotipo. Lo stereotipo è così dannoso perché non appare come tale: ci sembra, per paradosso, la normalità. A noi pare normale che diventi titolo di giornale una donna che compie una scoperta scientifica. Ma se al posto suo ci fosse un uomo, si farebbe un titolo sul fatto che è maschio? Certamente no. Noi lavoriamo per rendere le persone consapevoli del fatto che riproduciamo e assorbiamo stereotipi tutti i giorni, senza accorgercene.
Dal suo punto di vista, come si destrutturano gli stereotipi?
Riconoscendoli, anzitutto. Dopodiché, mi lasci dire che le idee precostituite non sono in sé un errore. Anzi, aiutano la nostra mente a scremare i processi, a rendere più veloce la conoscenza, per certi verso rappresentano per la mente uno strumento di sopravvivenza: gli stereotipi da cui dobbiamo guardarci sono quelli negativi, quelli che ingabbiano le persone in categorie, quelli che discriminano, che definiscono individui di serie A e individui di serie B.
Il linguaggio quotidiano riproduce una considerevole quantità di stereotipi di genere, anche ad opera delle donne stesse. Quale la colpisce di più?
Mi colpisce la resistenza a usare il femminile professionale. Ancora incontriamo resistenze in diverse ricercatrici a definirsi tali e molte preferiscono individuarsi come ricercatore: nella forma maschile ritrovano un peso, un’autorevolezza, diciamo anche un prestigio a cui non sono disposte a rinunciare. Abbiamo colto qualcuna dire: con tutta la fatica che abbiamo fatto per emergere, non rinunciamo a definirci ricercatori. È inaccettabile: la nostra lingua prevede la forma femminile e maschile delle professioni – vedi maestra e maestro – e non si comprende perché alcune professioni, certamente anche quelle scientifiche, quando esprimono un livello di prestigio debbano essere indicate al maschile, indipendente dal genere della persona che le pratica.
Anche perché il linguaggio apre l’immaginario, quando è discriminatorio lo imprigiona: nominare la chirurga, l’ingegnera, la ricercatrice, appunto, indica alle altre donne che queste strade sono percorribili, che è possibile farcela. Insomma, più donne vediamo nei luoghi della scienza, più riusciamo a immaginare noi stesse e le altre in quei luoghi.
È assolutamente così. E c’è un grande bisogno di spingere bambine e ragazze a scegliere le materie scientifiche. Noi dobbiamo arrivare a cambiare l’attitudine verso le materie scientifiche quando bambini e bambine sono molto piccoli, durante le scuole elementari e, magari, pure durante la scuola materna, perché è lì che cominciano a germogliare i pregiudizi. E vogliamo convincere gli insegnanti a costruire una narrazione della scienza diversa e più moderna.
Una volta lessi un’espressione che mi colpì: le ragazze sono molto brave in matematica, solo che non lo sanno, perché nessuno glielo dice. Le sottovalutano. Insomma, gli adulti – genitori o insegnanti che siano – continuano a ritenere delle eccezioni le bambine che mostrano interesse e attitudine per la matematica.
Io trovo che nel divulgare le materie scientifiche – la matematica, la fisica, ad esempio – si ricorra troppo frequentemente all’immagine del genio, che nella stragrande maggioranza dei casi è maschio. Si finisce per trasmettere l’idea che si tratta di materie complicatissime e fuori dalla portata delle persone comuni, e certamente questo non aiuta a diffondere le STEM tra le bambine e le ragazze. Invece i genitori e la scuola devono legittimare le bambine a guardare oltre, a mettere a frutto tutte le loro capacità senza discriminazioni. La scuola, poi, dovrebbe far comprendere bene che l’errore è parte del metodo scientifico, che, anzi, il metodo scientifico impara dall’errore. Lo dico perché le bambine vengono sostanzialmente educate a puntare alla perfezione, a non sbagliare e questo schema educativo le metterà molto in difficoltà nella vita adulta.
Peraltro, la pressione esercitata dagli stereotipi anche nella vita adulta è fortissima. Voi riportate una ricerca dell’Università di Padova che dimostra che quando le donne sono consapevoli che le loro capacità vengono messe a confronto con quelle che negli uomini sono date per scontate, commettono più errori.
Nella vita professionale, alle donne sono applicate valutazioni molto più severe di quelle riservate ai maschi: delle donne, anche in ambito scientifico, sono pesate di più le competenze e i risultati.
Come reagiscono i giovani uomini al lavoro di sensibilizzazione che fate sulla comunicazione?
Mi lasci dire che in genere i venti-trentenni sono molto sensibili ai temi della discriminazione, ne parlano tra loro, si appassionano. Noi donne vogliamo operare insieme in modo congiunto per abbattere le resistenze, le discriminazioni e gli stereotipi.