Elena Di Stefano è ricercatrice alla Bicocca di Milano e ci ha svelato il lato “buono” di qualcosa che, di solito, terrorizza
«La radioattività, prima di tutto, è un processo naturale: fa parte del nostro mondo. Viene sempre in mente Chernobyl, ma quando si parla di radioattività dovremmo parlare di un qualcosa che ha reso possibile l’evoluzione». Ci siamo fatti raccontare il lato “buono” delle radiazioni, qualcosa che solitamente terrorizza, da Elena Di Stefano, ricercatrice del Laboratorio dell’Università Milano Bicocca, dove vengono scovate e studiate le tracce di questo fenomeno che anche l’uomo ha lasciato nell’ambiente. Dai test nucleari effettuati dopo la Seconda Guerra Mondiale fino a Fukushima nel 2011, senza dimenticare la tragedia di Chernobyl nel 1986. «Ma sulle Alpi leggo anche la radioattività presente in minima parte nel ghiaccio per capire lo stato di accumulo del ghiacciaio e osservare quanto si sta fondendo».
Cos’è la radioattività?
Se tutti sanno cos’è successo a Chernobyl e in tantissimi hanno visto l’omonima serie HBO, forse in pochissimi saprebbero spiegare che cos’è la radioattività. «Se non ci fosse, per capirci, non avremmo avuto l’evoluzione, che si basa su piccole mutazioni causali del nostro DNA – ha spiegato la ricercatrice a StartupItalia – queste mutazioni sono dovute anche alla radioattività, energia che interagisce con le cellule. Quando la radioattività causa una ricombinazione casuale può portare a un vantaggio o a uno svantaggio evolutivo. Se esposti a grandi quantità il rischio è quello, noto, dei tumori. Ma piccole quantità hanno permesso, per esempio, alla giraffa di aver un collo più lungo».
Perché temiamo la radioattività?
Diventata spauracchio collettivo dopo le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, la bomba atomica ha gettato un’ombra mortifera sulla radioattività, soprattutto per i terribili effetti sulla salute quando l’esposizione è massima. «Le persone hanno paura della radioattività, soprattutto dopo Chernobyl, ma quel disastro nella centrale nucleare – precisa Elena Di Stefano – fu il frutto di decisioni sbagliate prese dalla politica, come si vede anche nella serie tv». Alla Bicocca di Milano, l’ambiente dentro cui lavora questa ricercatrice non è però ad alto rischio. «Le misure che facciamo sono di bassa radioattività. Nel mio caso, uso la radioattività per fare misurazioni di tipo ambientale. Ad esempio, se leggo di un incidente nucleare accaduto nel mondo posso prendere dei filtri d’aria presenti in università e capire se le radiazioni sono arrivate fin qui».
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Un libro di storia. Ghiacciato
Ma non allarmatevi: gli effetti di Fukushima in Italia sono stati ben al di sotto della soglia di rischio. La nostra penisola non presenta siti pericolosi dal punto di vista delle radiazioni, nonostante sia accerchiata da centrali nucleari attive in molti paesi d’Europa. «Nei campioni di ghiaccio ho letto anche le tracce di Chernobyl – ci ha detto Elena Di Stefano – Sappiamo che il ghiaccio delle Alpi contiene piccolissime quantità di radioattività, sotto i 10 becquerel. Ci dovremmo preoccupare soltanto con centinaia di becquerel. Insomma, sulle Alpi i problemi sono altri e riguardano lo scioglimento dei ghiacciai».
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Il ghiaccio è come un libro di storia, dove basta fissare un punto di riferimento per orientarsi. «Siamo in grado di trovare l’orizzonte radioattivo di Chernobyl o di altri momenti storici in cui ci sono stati picchi. A cosa mi serve? Ad esempio a capire quanto ghiaccio si è formato o fuso negli ultimi decenni». Ed è grazie a informazioni simili che siamo in grado di quantificare gli effetti dei cambiamenti climatici. Il ghiaccio, infine, conserve le tracce dei tanti test nucleari effettuati nel Novecento. «Nel 1963 ve ne furono tantissimi – spiega l’esperta – e non a caso, visto che fu l’ultimo anno prima che venissero messi al bando questi esperimenti». Ultime cartucce sparate dalle grandi potenze nucleari, di cui ancora oggi il ghiaccio trattiene l’eco. Ma per quanto ancora, dato che stanno sparendo?