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Abbiamo letto fiumi di saggi che dimostrano come la ricchezza di diversità nei team renda le aziende più tenaci e resilienti, e abbiamo ormai le prove che se ci sono più donne ai vertici le aziende aumentano le performance, e se si includono lavoratori di varie etnie e provenienze o  che stanno ai poli opposti delle generazioni, il sistema ne guadagna in efficienza e innovazione. Ma allora se adesso, a risultati più o meno consolidati, provassimo a trovare significati nuovi alle parole mantra – diversità e inclusione – che ci hanno portato fino a qui? Se provassimo a riconoscere che diversità può, in effetti, lasciare intendere che ci sia una normalità in un certo senso superiore a definire, per contrasto, ciò che è diverso e che includere sottende quasi l’idea di portarle dentro, le diversità, al chiuso di uno spazio predeterminato? E se riflettessimo sul fatto che la parola diversità rischia di nascondere, sotto un’unica generica pennellata, le infinite identità individuali? O ancora: se la suddivisione dei progetti di Diversity & Inclusion nelle macro-aree particolari di genere, etnia, generazione, orientamento sessuale, disabilità etc rischiasse di fare perdere di vista ciò che in realtà accomuna le persone, tutte, ovvero il bisogno di essere ascoltate, comprese, valutate per le proprie specifiche competenze, aldilà del gruppo di appartenenza? 

Quest’ultima è una delle argomentazioni da cui decolla La cultura del rispetto, oltre l’inclusione, saggio che punta a superare la tradizionale cultura dell’inclusione per affermare una più vasta cultura del rispetto. Il libro è scritto da Maria Cristina Bombelli ed Emanuele Serrelli, rispettivamente founder e partner di Wise Growth, autorevole società di consulenza che, al fianco delle aziende, si occupa di promuovere e costruire inclusione da lungo tempo, da molto prima che il tema entrasse nell’ordine del giorno delle imprese e acquistasse peso nella costruzione dei processi di reputazione e persino di quelli di quotazione. StartUpItalia incontra uno dei due autori, Emanuele Serrelli, docente di Pedagogia generale all’Università Cattolica di Milano, dove collabora, tra l’altro, anche con la UNESCO Chair on Education for Human Development and Solidarity among Peoples. Nell’ambito della consulenza e della formazione alle aziende, ha sviluppato esperienze formative e ricerche focalizzate sulla movimentazione di stereotipi, pregiudizi e “visioni tunnel” per facilitare il lavoro in contesti plurali.

Professor Serrelli, partiamo da qui: se ci si ferma alla generalità delle categorie che si intende includere – donne, persone LGBTQ+, persone con disabilità etc – si rischia davvero di non cogliere l’unicità di ogni individuo che di quelle categorie fa parte?

Precisiamo subito che i raggruppamenti sono fondamentali, con certi obiettivi e per un certo tempo, per contrastare le ingiustizie e le discriminazioni: consentono di rilevare e misurare le discriminazioni, appunto, e di mettere in atto delle linee guida per correggerle e, dunque, “riportare dentro” le persone che hanno subito o rischiano di subire una marginalizzazione. Per questo si parla di inclusione. E, infatti, il concetto di Diversità e Inclusione è germogliato, negli Stati Uniti durante gli anni Sessanta, per promuovere l’occupazione dei neri, oggetto di discriminazioni razziali. Dopodiché va detto che, oggi, raggruppare per tipologia all’interno delle organizzazioni può effettivamente rischiare di diventare una scorciatoia che elude la complessità.

Perché alla mente umana piace così tanto categorizzare, raggruppare, magari  assegnando etichette?

La mente umana si trova a suo agio nelle classificazioni perché queste rappresentano, appunto, scorciatoie incredibili alla comprensione di quanto la circonda: le etichette predeterminate consentono di inquadrare persone e cose senza bisogno di andare a conoscerle. E quindi direi che, sì, fuori dalla necessità di intervenire sui macroproblemi, categorizzare in termini eccessivi rischia di non mettere in luce l’unicità dei singoli individui, che aspirano, invece, a essere visti, compresi e valorizzati nella loro originalità e unicità. Lo scopo dei progetti finalizzati all’inclusione alla diversità dovrebbe sempre di più consistere nel fare sentire ciascuna persona rispettata, riconosciuta nella sua dignità, in una dimensione di convivenza nella pluralità.

 

Voi, però, scrivete di una nuova frontiera dell’inclusione: proponete di lavorare sulla cultura del rispetto. Cosa si intende per rispetto e perchè per voi è una nuova via da imboccare?

Rispetto deriva dal verbo latino respicere, guardare di nuovo. Dunque ri-spettare significa guardare ancora una volta, guardare indietro, guardare meglio, rimediare, anche, a ciò che non si è visto. Vuol dire sapere guardare i dettagli e accorgersi di chi ci è accanto, del suo valore e dei suoi bisogni, degli effetti che ha su questa persona il nostro comportamento. Magari per rendersi conto che questa stessa persona viene svilita, esclusa, trattata male. Rispettare è dunque l’opposto dell’idea di lasciar stare, tollerare, non disturbare, che ci è istintivo associare a questo verbo. Rispettare, insomma, è a tutti gli effetti un verbo di azione: presuppone che si agisca, che si intervenga, che ci si dia da fare per l’altro, che si facciano delle cose, con consapevolezza.  

Ne citi una, una tra le più semplici.

Per esempio, vuol dire chiedere l’opinione di chi, in un incontro tra più persone, non si propone per primo. O accorgersi e mettere in luce valori che la persona con cui lavoriamo non ha la consapevolezza di portare. Questo è un modo di rispettarla. 

Ci spiega perché individui e gruppi tendono piuttosto istintivamente a creare dinamiche di esclusione, che sono antagoniste al rispetto?  

Effettivamente nelle organizzazioni si creano facilmente dei noi e dei loro e, tutte le volte che c’è un confine naturale, quanti e quante stanno di là acquisiscono automaticamente tutte le caratteristiche negative. Esattamente come la tendenza a stereotipare, unirsi a quelli che ci somigliano è una modalità con cui tendiamo a risparmiare energie: si fa gruppo con i soliti colleghi che riteniamo simili a noi, e lo facciamo per pigrizia, per quieto vivere, perché non richiede la fatica di mettersi in gioco. Ripeto, risparmiamo energie, ma perdiamo moltissimo. 

Cosa perdiamo?

Perdiamo capacità creativa, capacità di pensare diversamente, di affrontare le sfide e i problemi inediti, di fare innovazione, anche a svantaggio dell’organizzazione a cui apparteniamo. E non ce ne accorgiamo mai. Se lavoriamo in un ambiente molto diversificato e con una potenzialità incredibile in innovazione, ma non abbiamo una cultura del rispetto per gli altri e del valore delle diversità, possiamo anche originare un inferno: nei contesti plurali non è affatto automatica la convivenza.  

Si può educare al rispetto gli adulti, per di più nei luoghi di lavoro?

Direi che educare è la parola giusta. Innanzitutto bisogna liberarsi dell’idea che solo i bambini si educhino, così come dell’idea che educare significhi mettere le persone sui banchi: educare non ha niente a che fare, come già abbiamo detto a proposito del rispetto, con la passività. L’apprendimento adulto non è un’educazione asimmetrica, ma alla pari: si genera con la partecipazione ai contesti, con il farsi le domande, con il rielaborare le esperienze reali, l’individuare le criticità e trovare insieme le soluzioni, collaborando per costruire l’ambiente in cui si lavora, e i contesti possono essere costruiti intenzionalmente affinché le persone siano più rispettose, siano insomma agevolate in questo. Naturalmente stiamo parlando di processi complessi, che necessitano di tempi lunghi.

Ci sono gruppi di persone che, a suo parere, nelle organizzazioni fanno ancora fatica a vedersi riconosciuto quel rispetto di cui ci ha parlato?

Marginalizzate sono, per esempio, le persone con disabilità, escluse molto spesso senza una ragione oggettiva. Nei contesti dove potrebbero rappresentare una risorsa grazie a piccoli accorgimenti sono invece separate dal resto delle persone, quando proprio non vengono lasciate fuori: il mondo della disabilità soffre di una disoccupazione spaventosa o, comunque, di percorsi lavorativi molto frammentati e limitati, perché questi non sono costruiti sulle competenze professionali delle persone – che non vengono adeguatamente viste e supportate -, ma sui limiti delle loro disabilità. A volte agisce persino quello che si chiama bias di benevolenza, un eccesso di tutela per cui non si chiede alle persone con disabilità di più per rispettare quelli che si credono loro limiti. L’altro giorno sono andato da un veterinario, e mi ha accolto un signore in carrozzina: non è stato immediato neanche per me riconoscere che era lui il veterinario.