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A Piacenza le generazioni non hanno barriere, grazie a un centro intergenerazionale che riunisce una casa di riposo, un centro diurno per anziani e un nido d’infanzia. In questi spazi nonni e nonne, bimbi e bimbe costruiscono relazioni significative e imparano gli uni dagli altri. Il progetto si chiama ABI, Anziani e Bambini Insieme: è un centro intergenerazionale che mette in contatto anziane e anziani autosufficienti o parzialmente autosufficienti. Nel medesimo spazio sono presenti una casa di riposo, che ospita 54 nonni e nonne, un centro diurno che accoglie 25 persone, tra uomini e donne e un nido d’infanzia che ospita 42 bambini e bambine tra i tre mesi e i tre anni. 

«L’idea nasce dalla certezza che anziani e bambini possono stare bene insieme», spiega Francesca Cavozzi, responsabile del progetto, che è realizzato da Unicoop. «Noi gestiamo servizi alla persona dagli Anni Ottanta, mentre dagli Anni Duemila abbiamo iniziato a occuparci anche di nidi d’infanzia. Abbiamo così messo a frutto le nostre competenze in questa idea, che si è concretizzata già nel 2009 con il centro, sebbene ancora non fosse partito il progetto vero e proprio che vede anziani e bambini condividere attività quotidiane». 

Il territorio è protagonista

L’idea di realizzare un centro intergenerazionale è connessa a forti bisogni del territorio. In primo luogo c’era la necessità di ristrutturare una casa di riposo ubicata dove adesso sorge il centro; il secondo bisogno riguardava la necessità del Comune di Piacenza di realizzare nel centro storico un nido d’infanzia che avesse anche la sezione lattanti (tra i 3 e i 12 mesi). Infine, c’era la necessità di realizzare un centro diurno per anziani. La cooperativa è scesa in campo, lavorando già da anni in rete con amministrazione e territorio. Il luogo? Un viale ottocentesco in pieno centro di Piacenza, ideale per far incontrare tutte le generazioni. Grazie a un lavoro coordinato, il centro intergenerazionale prende vita nel 2009.

La formazione sul campo

Le difficoltà iniziali non mancano. Spiega Francesca Cavozzi: «Nel 2009 non esisteva una bibliografia in merito a esperienze di anziani e bambini insieme; siamo venuti a conoscenza della presenza di una scuola d’infanzia e una casa di riposo nello stesso luogo a Parigi: questo ha confermato la nostra intuizione». 

Il team vuole quindi andare avanti. «La formazione del personale del nuovo centro era molto eterogenea, quindi serviva prima di tutto un linguaggio comune di comunicazione per entrare in relazione con le diverse fasce di età: le differenti professionalità dovevano parlarsi e capirsi». 

Il primo passo per realizzare l’idea è stata dunque la formazione, in collaborazione con il corso di laurea di Scienze dell’educazione e della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza. «Una formazione sul campo, durante la quale operatori e operatrici si sono sperimentati imparando gli uni dagli altri». Il primo mattone di tanti percorsi formativi che si sono succeduti nel tempo.

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Relazioni nella quotidianità

L’idea, infatti, si rivela vincente: anziani e anziane, bambini e bambine iniziano a sperimentare attività in comune. Le esperienze iniziali si basano su attività in gruppo: feste, colori, gioia. Tuttavia, il segreto delle relazioni significative è nella quotidianità. «Ci siamo accorti che le cose più belle scaturiscono dall’incontro tra un anziano e un bambino che iniziano a parlare. Lì nasce la vera relazione e il nostro compito è sostenere questi rapporti». 

Il cambiamento dell’approccio è totale: «Abbiamo capito che il piccolo gruppo e gli ambienti più ristretti favoriscono la relazione, attraverso un setting idoneo». Il quadro che emerge è di una dolcezza infinita: nonni e nonne che leggono libri ai bimbi e alle bimbe grazie a una biblioteca presente nella casa di riposo e attività all’aria aperta e al chiuso che possano conciliare il desiderio di sperimentazione dei piccoli con la voglia di produrre cose concrete degli anziani. «Lasciamo tutti molto liberi di muoversi e relazionarsi, ma all’interno di uno spazio strutturato». 

Fra le attività trova spazio anche la dolcezza dei momenti di routine: i pasti condivisi, la merenda o il momento della nanna, durante il quale nonni e nonne fanno addormentare cantando una canzone i bimbi e le bimbe. «Far addormentare un bambino piccolo per un anziano vuol dire sentirsi capace e competente».  

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Educare all’inclusione

I benefici si vedono per tutti. Nonni e nonne migliorano le loro capacità residue, motorie e cognitive, ma soprattutto, «in una società in cui la persona anziana è ritenuta colei che non produce più, qui ci si sente ancora utili perché ci si può prendere cura di una generazione ancora molto piccola». Invece, per quanto riguarda bimbi e bimbe, «l’obiettivo è costruire una generazione aperta non solo alle altre generazioni ma anche alle diversità e specificità di ognuno. Il bambino impara che l’ausilio non è uno stigma, ma semplicemente un supporto, vedendolo attraverso gli occhi dell’infanzia. Gli ausili per la disabilità diventano strumenti della relazione». Così una carrozzina diventa una macchina su cui essere trasportati o da spingere, mentre un bastone può diventare una spada. In questo modo la parola d’ordine è inclusione.

Un’inclusione che neppure il Covid è riuscito a fermare. Infatti, grazie a una vetrata e alla riprogettazione degli spazi, nonni e nonne, bambini e bambine hanno potuto continuare a fare attività insieme, pur divisi da una barriera trasparente. La tenerezza di due mani che si sovrappongono sul vetro, le storie lette e ascoltate grazie a casse acustiche o i telefonini per potersi salutare. «Il progetto è dentro di loro – conclude la responsabile – e vedere il modo in cui entrano in relazione regala gioia».