Per costruire i futuri possibili la tecnologia che si usa è sempre il linguaggio e, quindi, la capacità di comunicare, esprimersi, desiderare, immaginare e, sopratutto, collaborare
L’affermazione che dà il senso al blog The Next Tech, “la tecnologia migliora il futuro”, è molto interessante. Ogni sua parola è, infatti, un rompicapo. Ci potremmo chiedere cos’è la tecnologia. Se è qualche cosa di diverso o distinto dall’essere umano, di situabile in un certo contesto o entro un qualche confine. Ci potremmo domandare cosa possa voler dire che la tecnologia “migliora il futuro”. Migliora. Da quale punto di vista? Chi decide? Con quale obiettivo? E, ancora: c’è un singolo obiettivo, o piuttosto una miriade di obiettivi diversi?
E poi il futuro. Cos’è? È qualcosa che avviene? Che si crea? Che si costruisce? Chi lo costruisce? È singolo, plurale, alternativo, omogeneo, disomogeneo? O cosa.
Questi sono, ovviamente, solo alcuni dei dubbi e delle domande che potremmo iniziare a porci.
Qualcuno (magari esperto di filosofia, di linguistica o di psicologia) potrebbe farci notare che siamo partiti con un problema: la nostra affermazione contiene già le risposte desiderate. Che fare? Mettiamo ordine e isoliamo i singoli elementi della nostra frase.
“La Tecnologia è uno strano oggetto”
La tecnologia è uno strano oggetto che attraverso i secoli ha assunto diversi significati ed intendimenti. Il XX secolo segna la nascita della filosofia della tecnologia, con Heidegger e la sua “Questione della Tecnica”: lo sviluppo tecnologico si fa non solo più rapido di quello avvenuto nel resto della storia umana, ma è di tipo differente, come differente è la natura della tecnologia che ne risulta. Questo è anche il primo momento in cui la tecnologia viene descritta non solo come strumento per raggiungere uno scopo, ma anche come mezzo per conoscere, per scoprire la natura nascosta delle cose.
Heidegger espone la tecnologia come un modo particolare di affrontare la realtà, dominandola e controllandola, in cui il reale appare come materia grezza, da manipolare.
È questo il momento in cui la tecnologia viene riconosciuta come elemento ubiquo e pervasivo della vita umana e delle società, tanto che Enrst Kapp, con il suo “Fondamenti di Filosofia dell’Ingegneria” inizia a studiare gli effetti dell’uso della tecnologia nella società, vista come possibile estensione e miglioramento del corpo umano e dei suoi organi. Henri Bergson arriva all’idea dell’organismo esteso in maniera globale (citato frequentemente da McLuhan). La Teoria Cibernetica (Wiener, von Neumann, von Foerster, Bateson, Berg, Maturana, Varela, Latour, Schöeffer, Ascott e tanti altri) con il suo approccio transdisciplinare, ci ha inoltre insegnato come la tecnologia e l’essere umano non siano sistemi indipendenti, ma sistemi cibernetici caratterizzati da cicli di feedback mutuali: l’essere umano determina la tecnologia, proprio come la tecnologia determina l’essere umano.
Tutto tende alla nostra visione contemporanea della tecnologia, in cui essa diventa un fenomeno, un processo non separabile dal resto della natura: modifichiamo geni; creiamo materiali; connettiamo neuroni (sia tramite strumentazioni, sia tramite comunicazione); sintetizziamo organismi; creiamo software che pensano; descriviamo ecosistemi in cui il passaggio dal digitale al fisico e viceversa non ha soluzione di continuità, tramite l’informazione.
Questo è il momento storico in cui tutte le scienze (e, di conseguenza, tutte le tecnologie) diventano tendenzialmente scienze dell’informazione, “schiacciando” su di essa la nostra percezione del mondo. Non abbiamo più grandi problemi ad immaginare esseri umani aumentati tecnologicamente. Direttamente, attraverso protesi, organi digitali e modifiche genetiche. O indirettamente, tramite dispositivi ed applicazioni che, ormai, fanno parte di noi e della nostra percezione della normalità, della naturalezza.
Fino a pochi anni fa, visitando una città in cui non eravamo mai stati prima, non ne conoscevamo praticamente nulla. Oggi l’avremmo già vista migliaia di volte, su Google Maps, su Street View, su Instagram; sapremo moltissime cose, dall’ubicazione del nostro Bed and Breakfast, a cosa ne pensano i recensori di Trip Advisor di quel ristorantino vegetariano che abbiamo trovato sui social network.
Sono, con gli occhi di qualche anno fa, dei veri e propri super-poteri (addirittura la telepatia, uno strano modo di descrivere quel che ci succede sui social network ora che possiamo conoscere abbastanza sistematicamente quel che stanno pensando o provando gli altri).
Che vuol dire “miglioramento”?
Dobbiamo, a questo punto, capire come comprendere e osservare gli impatti della tecnologia sugli individui e sulle società umane.
E ciò significa affrontare il secondo pezzo della nostra problematica frase: l’idea di “miglioramento”.
Per ogni singola persona, più o meno consapevole dei propri desideri, delle strategie e tattiche per raggiungerli (caso non comunissimo), questo potrebbe sembrare semplice e scontato. Ma non lo è, ovviamente. La nostra idea di “miglioramento” è impregnata di concetti che non dipendono dai nostri desideri e dalle nostre aspettative, ma anche dalla definizione socialmente accettata (almeno nel nostro gruppo sociale di riferimento) di cosa vuol dire “miglioramento”. Sono più soldi? Una vita più lunga? Più oggetti? Meno stress? Più tempo “libero”? Meno guerre? Più panini al prosciutto? Cosa? È questo un tema che affligge filosofi di ogni tipo, dalle discussioni sul Libero Arbitrio, al Senso della Vita, al Consumismo, alla Comunicazione.
Le cose si complicano ancor di più se si aumentano i punti di vista
L’idea di avere un lavoro, se si è disoccupati, potrebbe sembrare un miglioramento per alcuni. Per altri, potrebbe esserlo continuare a non averlo e beneficiare di un reddito garantito. Altri desiderano la scomparsa del lavoro dalla faccia del pianeta. Altri ancora potrebbero pensare cose diverse. Tutte sono lecite. Come si fa? Su quale si investe? Su tutte? Su nessuna? Alcuni investono su certe, altri su altre? Sono tutte possibili simultaneamente?
Parlando di tecnologia, inoltre, entra in gioco anche l’evoluzione dell’identità e della soggettività post-umana. Siamo circondati da soggetti “non umani”, quali aziende, corporation, organizzazioni, ed altre entità: persone a tutti gli effetti (sono persone giuridiche) che esprimono desideri e strategie; emozioni (“il mercato ha paura!”); si assumono responsabilità; fanno azioni.
Cosa succede in un mondo in cui coesistono esseri umani e non-umani e gli umani potrebbero non essere più la specie dominante?
Facciamo un esempio. Per una corporation “X” che si occupa di trasporti marittimi, lo scioglimento della calotta polare sarebbe un miglioramento: potrebbe infatti trasportare merci in Cina “passando da sopra”, invece di fare tutto il giro del continente. Quindi si mette in testa di sviluppare tecnologie, comunicare, educare, fare lobbying per convincere anche gli altri (umani e non-umani) della bontà del suo piano, e rendere sostenibile l’idea.
Non c’è nessuna garanzia che l’intelligenza artificiale ragioni secondo la nostra logica, o che abbia a cuore la nostra sopravvivenza.
Inoltre, ci sono molte considerazioni che potremmo fare quando parliamo di “miglioramento”, di sviluppo. Differenti culture hanno diverse percezioni di benessere, di miglioramento, di sviluppo. Diversi tempi e modi. Diversi livelli di dipendenza o libertà da beni di consumo e servizi. Diversi modelli relazionali, tradizionalmente presenti o acquisiti nel contemporaneo e/o tramite le tecnologie.
Ad esempio, sotto un certo punto di vista, avere dei robot che si prendano cura degli anziani potrebbe essere una cosa che migliora estremamente la nostra vita. Da un altro punto di vista potrebbe essere orribile: una società che non comprende l’importanza di avere a disposizione tempo e risorse per i propri “vecchi”. Ancora da un altro punto di vista (e questo vale anche per i bambini, ad esempio), i “vecchi” potrebbero essere “di tutti”, nel senso che se ci fosse una sensibilità mutualistica, le persone anziane non costituirebbero un fardello solo per i loro parenti, ma sarebbero un patrimonio dell’intera società, che se ne occuperebbe all’unisono, in maniera naturalmente attiva e collaborativa.
Anzi, in questo senso, i robot di cui sopra si rendono veramente necessari nell’ipotesi che stiamo attivamente creando attorno a noi un mondo in cui le persone si riproducono sempre meno, la vita si allunga, e quindi la società si trova sempre più composta di anziani. Tutto questo avviene, ovviamente, “grazie” alla tecnologia, che modifica gli esseri umani che influiscono a loro volta sulla tecnologia (servono i robot), eccetera, di nuovo nel ciclo di feedback dei cibernetici.
“Il Futuro non esiste. I futuri sono una performance”
Come la mettiamo? La mettiamo osservando l’ultimo elemento della nostra frase: il futuro. Innanzitutto, il concetto di “futuro” ha un problema: non esiste. Ce lo insegnano i futurologi: esistono una pluralità di futuri differenti, a verosimiglianza variabile. Futuri. È un concetto plurale.
Un concetto plurale che si sostanzia in una performance partecipativa continua. A seconda delle nostre azioni (di esseri umani e non-umani) certi futuri possibili cambiano; certi diventano più o meno verosimili; certi che non lo erano diventano possibili. Certi futuri diventano presenti e, quando passano, diventano passati.
Il futuro non esiste. I futuri sono una performance. Inoltre i futuri, in tempi di cambiamento esponenziale come questi, sono particolari. Con l’aumentare della velocità del cambiamento tecnologico, i “segnali deboli” dei futuri sono sistematicamente presenti nel presente. Questo è un concetto molto semplice da verificare: basta guardarsi intorno. Ai bordi della realtà consensuale (quella che consideriamo la nostra realtà ordinaria, normale, il campo della normalità) si verificano costantemente i cosiddetti rituali curiosi.
I rituali curiosi sono cose che avvengono nel presente, ma che sono ancora considerate strane, peculiari, particolari e per cui, in generale, non vi sono ancora spiegazioni o comprensioni condivise.
Il selfie, fino a poco tempo fa, era un rituale curioso. I rituali curiosi sono, spessissimo, segnali deboli di futuro, nel presente. Creano delle tensioni, dei movimenti, degli spostamenti percettivi. Tanto che alcuni di essi cambiano gli esseri umani, che cambiano le tecnologie, che cambiano gli esseri umani. Se prima il selfie era un rituale curioso, adesso abbiamo dispositivi, gadget, applicazioni per il selfie, che si è, nel frattempo, trasformato in una realtà consensuale, in un mercato, in un gesto compreso e mainstream.
Il Near Future Designer e il “linguaggio” che crea il mondo tecnologico
Questo tipo di fenomeno, nei momenti di cambiamento esponenziale, se non addirittura di discontinuità, avviene costantemente. Erano rituali curiosi l’aborto, la fecondazione artificiale, la chirurgia plastica, la raccolta differenziata, lo storico walkman, le mappe su Internet, e persino i social network seminali.
Il Near Future Designer (per esempio), fa proprio questo mestiere: analizzare la realtà consensuale, i rituali curiosi, lo stato delle arti e delle tecnologie (magari aiutato da BigData provenienti dai social network e altre fonti) per comprendere lo “strano adesso” (lo Strange Now, composto dalle tensioni che descrivono tutti questi elementi), al fine di descrivere delle Future Map, le mappe di futuro più o meno verosimili, ognuna delle quali composta da New Normals, le “nuove normalità”, ovvero quelle “cose” che nell’ambito di un futuro verosimile potrebbero rientrare nella normalità.
A questo punto il Near Future Designer usa uno o più New Normal per progettare un pre-totipo, un prototipo transmediale (ovvero capace di attraversare in maniera coordinata diversi media, online, offline, nella città…) in grado di stimolare la performance partecipativa sul futuro: un oggetto capace di creare linguaggio e spazio mentale, che materializza i segnali deboli, le loro implicazioni ed effetti, in modo che le persone li percepiscano e si attivino intorno ad essi esprimendosi sui futuri possibili e su quelli desiderati.
A questo punto affermazioni e domande di partenza cambiano.
Potremmo, ad esempio, riconoscere come la tecnologia sia ubiqua e multiforme. Capire che i modelli di sviluppo sono molteplici, e che spesso non coincidono gli uni con gli altri. Che non condividono filosofie e metriche per la loro misurazione.
E potremmo anche iniziare a pensare ai futuri in modo plurale, come qualcosa da costruire, come una “performance” collaborativa e partecipativa. In questa visione, l’unica vera tecnologia è il linguaggio e, quindi, la capacità di comunicare, esprimersi, desiderare, immaginare e, soprattutto, collaborare.
Partendo dall’essere umano, potremmo chiederci quali tecnologie (esistenti adesso, nei possibili futuri vicini o remoti) potrebbero sostenere i nostri desideri, come individui e come membri delle società.
E non basterebbe ancora. Potremmo forse partire dalla società, e chiederci quali tecnologie avrebbero la capacità di creare scenari più giusti, equi, sostenibili. Potremmo, forse, liberarci della preoccupazione verso le tecnologie, e porci domande molto più semplici, valide verso gli esseri umani e non-umani (corporation o intelligenze artificiali che siano), in molta sincerità e, preferibilmente, pubblicandone i risultati.
Chi siamo? Cosa immaginiamo? Cosa desideriamo? Quanto siamo disposti a collaborare con gli altri per ottenerlo?
Sarebbe sicuramente una strada più interessante, forse più spaventosa, certamente più intelligente ed efficace per permetterci di organizzarci.
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico