Inclusione, insieme a sostenibilità, è una delle parole più spesso utilizzate dai mass media, dalla politica e dall’economia. Ormai fa parte della nostra vita quotidiana, ma non è sempre stato così e, soprattutto, questo termine non aveva il significato con cui più frequentemente oggi lo usiamo.
Certo è che non è una parola nuova, anzi: “Nella lingua italiana esiste fin dal Cinquecento ed indica il contrario di esclusione”, spiega Valeria Della Valle, linguista ed autrice di numerosi libri sulla storia dell’italiano, nonché del romanzo “La strada sognata”, da poco in libreria per Einaudi.
“In origine significava ‘inserimento di una cosa in un’altra’. Poi, a partire dagli Anni Settanta del secolo scorso, sul modello del significato dell’inglese inclusion, ha preso anche il valore di ‘estensione a quante più persone possibili di un diritto, di una possibilità, di una competenza’. Da allora si è parlato e scritto sempre più spesso di inclusione scolastica, cioè il tentativo di organizzare la vita scolastica permettendo a ciascuno studente di partecipare alla vita di classe e all’apprendimento, e di inclusione sociale, ovvero l’integrazione degli individui nella società”.
Le donne, per esempio: l’inclusione femminile è uno di temi al centro del dibattito attuale. “Con questa espressione, entrata nell’uso più tardi sul modello dell’inglese women’s inclusion, si indica la volontà di promuovere la parità di genere nel mondo del lavoro e della rappresentanza, includendo a pieno titolo le donne in ogni tipo di ruoli, attività, professioni”.
Un’evoluzione alla quale hanno contribuito in modo determinante i movimenti femministi, che a partire dal secolo scorso hanno lottato per la completa emancipazione sul piano economico, giuridico e politico.
Dalla dittatura ai movimenti femministi
E così anche i modi linguistici sono mutati nel raccontare il femminile. Negli Anni Trenta le parole descrivevano una quasi invisibilità, come è subito evidente guardando filmati dell’Archivio Luce. “Paradossalmente la figura della donna era molto presente nella rappresentazione dei mass media, ma era sempre vista solo come madre prolifica, massaia, cuoca, aspirante consorte che fa i corsi per essere una brava moglie”.
Con l’avvento della Repubblica la presenza delle donne nei filmati storici, quindi l’inclusione femminile, aumenta, anche se spesso è accompagnata da un commento che ironizza sulla nuova libertà conquistata, dal referendum del 1946 all’approvazione di leggi importanti, come la legge Merlin e quella sul delitto d’onore. Intanto, compaiono anche parole che prima non erano accettate, come procreazione o sesso.
“Dal 1968 il ruolo delle donne comincia davvero a cambiare e la loro inclusione nella storia e nelle immagini è più completa: sono gli anni in cui scendono in piazza a reclamare i propri diritti, per esempio l’aborto o il divorzio”.
E oggi? “C’è una situazione in evoluzione, che lascia sperare in cambiamenti progressivi e definitivi. Ma ci sono provvedimenti, per esempio la recente decisione della Corte Suprema negli Usa, che ha revocato il diritto delle donne all’aborto, che rischiano continuamente di far arretrare a condizioni precedenti e non inclusive”.
Avvocata, ministra, sindaca
Di pari passo con i cambiamenti della storia, evolve anche l’uso del linguaggio, grazie a figure come Alma Sabatini, saggista, linguista e attivista femminista, impegnata in numerose battaglie per i diritti civili: “Fu la prima ad affrontare il problema del sessismo nella lingua italiana”, prosegue Della Valle.
Negli Anni Ottanta del secolo scorso le sue ricerche aprirono un dibattito sulla necessità di rinnovare la lingua italiana rendendola meno “androcentrica” e contribuirono in maniera determinante allo sviluppo di una lingua inclusiva. “Fu lei la prima a proporre in modo ufficiale che non si usasse la lingua tutta al maschile, quando ci si rivolgeva alle donne, sostenuta in seguito da tanti colleghi e colleghe. L’ancora attuale resistenza nei confronti di parole come avvocata, ministra e sindaca è priva di fondamento, perché grammaticalmente sono parole correttissime. Le prime due esistono fin dal Trecento, già al femminile”.
Cambiare abitudini profondamente radicate è però difficile: “Se apriamo il vocabolario di italiano, troviamo nomi e aggettivi declinati al maschile, poi tra parentesi c’è una lettera a preceduta da trattino che ne indica il femminile. Questo deriva da una lunghissima e antica tradizione, che ha avuto un senso per secoli, perché la società era basata sul potere maschile. Ora le cose sono cambiate ed anche dal punto di vista linguistico è giusto cambiare, senza arrivare ad eccessi come lo schwa ed altre richieste estreme di una vocale indeterminata, che non alluda ad alcun sesso. Richieste legittime, ma che non hanno possibilità di essere attuate, perché la nostra lingua si ridurrebbe a un miscuglio di segni impronunciabili e difficili da scrivere, che alla maggior parte degli italiani risulterebbe incomprensibile”.