Spesso questi eventi colpiscono le zone più povere del mondo. Sapere con precisione quando e come si abbatterà una onda anomala potrebbe non essere più un’utopia
E se esistesse un modo più accurato per prevenire gli impatti di uno tsunami?
Pare che qualcuno ci stia andando sempre più vicino.
Tsunami, un nemico prevedibile?
Eric Dunham, professore di geofisica presso la Stanford Earth e il dottorando Yuyun Yang, stanno progettando un sistema di allarme innovativo capace di indicare quando e dove impatteranno le disastrose onde.
Secondo lo studio pubblicato nella rivista Geophysical Research Letters, il nuovo metodo permetterebbe alle agenzie governative di inviare allarmi ai residenti e procedere ad una tempestiva evacuazione. Tempestività che si traduce, in tal caso, in 20-30 minuti.
Vi state chiedendo se è il primo sistema di allarme progettato? Certamente no.
In cosa si differenzia questo studio?
Un passo alla volta.
Si incominciò a parlare di sistemi di allarme negli anni ’40 ma solo dopo il tremendo tsunami del 2004 si procede ad uno studio più intenso. Giappone e Stati Uniti in testa alle ricerche: valutazioni in base alle caratteristiche dei terremoti e alle proprietà delle onde sismiche.
Nella primavera del 2011, poi, il terremoto di Tōhoku-Oki – nel Nord Est del Giappone- ha letteralmente spostato l’isola. Qualche minuto dopo, i residenti iniziarono a ricevere avvertimenti tramite cellulari e sirene. Però, avevano sottovalutato le dimensioni delle onde e molte persone non riuscirono a evacuare abbastanza in alto da sfuggire.
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Stessa cosa nel 2018 per il terremoto che ha scosso l’isola indonesiana di Sulawesi. Qualche minuto dopo l’inizio del sisma, anche qui, i locali sono stati sorpresi da un muro d’acqua che si è schiantato a terra con risultati devastanti. Nulla è servito.
Ma in cosa hanno fallito questi sistemi?
Occorre una piccola premessa. Gli tsunami possono originarsi da un terremoto in mare aperto ma anche per altre cause. Lo tsunami potrebbe originarsi, ad esempio, per una frana sottomarina. L’accento, però, è stato sempre posto sul monitoraggio dei terremoti e sull’elaborazione dei dati sismici, non sulle inondazioni costiere. Il resto è stato in gran parte ignorato.
Ecco il punto: i sistemi di allarme tradizionali non riescono a identificare gli tsunami che sorgono da fonti differenti rispetto a quelle sismiche (circa il 20%).
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Dopo la catastrofe del 2011, il Giappone ha installato una rete di sensori sismici e di pressione sul fondo dell’oceano che hanno innalzato il livello dei sistemi di allarme tempestivo per lo tsunami. Per quanto siano importanti e innovativi, per ora, i sensori, ahimè, sono distribuiti solo in Giappone e, comunque, non sono ancora abbastanza precisi.
Il metodo di Yang e Dunham che si differenzia in qualcosa di sostanziale.
Si tratta di uno streaming di dati in tempo reale su sensori simili a quelli già usati in Giappone ma combinati con delle più verosimili simulazioni di tsunami.
Ma la vera novità sta oltre.
L’attenzione è focalizzata su tutto il moto dello tsunami, tenendo conto del cambio di pressione in tutta la colonna d’acqua. “Il nostro metodo ricostruisce la superficie dell’oceano e stima l’altezza delle onde in base alla pressione rilevata dai sensori in mare aperto mentre passa lo tsunami”, spiega Yang.
I due hanno applicato una tecnica di assimilazione dei dati, nota come ‘filtro di Kalman‘, per ricostruire rapidamente il campo d’onda dello tsunami in un dato momento, quindi, utilizzare le simulazioni fornendo in definitiva previsioni di altezza delle onde e orario di arrivo sulla costa.
L’approccio riduce le fluttuazioni dei metodi tradizionali e, certo, non è cosa da niente se si parla di tsunami. Ogni accuratezza in più potrebbe salvare la vita a centinaia e centinaia di persone.
Perché questo approccio non è stato applicato prima?
Le reti di sensori collegati via cavo a fibre ottiche e la trasmissione in tempo reale sono estremamente costose; inoltre, le maree, le correnti, i cambiamenti di temperatura e di salinità possono far sì che questi strumenti indichino una variazione delle onde quando, in realtà, non c’è.
Se la fisica, poi, è la stessa ovunque, tante zone non hanno però le caratteristiche per l’implementazione di questo metodo.
Intanto, ogni anno, circa 60.000 persone e 4 miliardi di dollari in attività sono esposti al pericolo di tsunami.
Fino ad ora le stime erano approssimative e le comunità costiere si sono spesso trovate di fronte al compito di decidere evacuazioni di fronte a una grande incertezza. Sono stati diversi i falsi allarmi che si stima siano costati circa 41 milioni di dollari ciascuno.
Insomma, i sistemi di allarme tsunami accurati e affidabili hanno dimostrato di fornire una difesa significativa per questo pericolo di allagamento.
E se il problema è il costo, come si fa?
Secondo Dunham, c’è la possibilità di utilizzare cavi in fibra ottica esistenti in molti fondali oceanici ed installarci sensori di pressione sul fondo; inoltre, ci sarebbero modi per misurare il movimento di questi cavi indotto dalle onde ed ottenere una stima della pressione e dell’altezza delle onde. Un’altra possibilità sarebbe quella di utilizzare le stazioni GPS su navi commerciali che misurano l’altezza dell’acqua in un dato luogo in mare.
Ora, se il metodo accurato c’è e le soluzioni ai problemi pure, non resta che fare il passo successivo.