Parole giuste, precise, comprensibili da tutti i modelli mentali. Che infondano fiducia. E che includano, e cioè che facciano sentire ciascuno compreso e accolto per come è e per i valori che rappresenta, fuori da ogni giudizio.
Così, attraverso la crucialità delle parole, racconta il suo mestiere di Content e digital strategist Valentina Di Michele: laureata in Filosofia a 20 anni e in Scienze delle Amministrazioni a 40, è imprenditrice dal 2014 e dal 2018 al timone di Officina Microtesti, unico studio di ux writing e neuro service design in Italia, nonché membro del Programma Digital Skills della Commissione Europea, che promuove progetti e strategie per migliorare le competenze digitali in Europa, umanizzando il linguaggio della tecnologia. Docente di content e digital strategy per i Programmi Executive dell’Università LUISS Guido Carli, Valentina Di Michele è anche founder della community su Facebook Microcopy & UX Writing Italia e autrice, insieme ad Andrea Fiacchi, del libro Emotion Driven Design, pubblicato per Apogeo/Feltrinelli in cui, srotolando ricerche, riflessioni, casi concreti svela il prodigioso potere delle parole nel costruire fiducia, nell’aprire conversazioni, nel nutrire relazioni, perché, dice, «le parole hanno un grande potere. E chi le usa di più».
Linguaggio inclusivo e responsabile
Con questa professionista dell’innovazione continuiamo gli approfondimenti sul linguaggio inclusivo e responsabile su Valore Responsabile, che da qualche tempo indaga per capire come definire sì nuove visioni sulle fragilità e le condizioni di difficoltà, ma anche costruire, ovunque sia possibile, conversazioni che affermino la parità dei diritti e delle opportunità per tutti.
Valentina, come è nata in lei la consapevolezza di quanto importanti fossero, strategicamente, le parole chiare e inclusive anche nel disegnare un prodotto innovativo?
“È stato un processo, però una scintilla più forte di altre c’è stata. Era il 2018, e in Portogallo si teneva uno dei tanti summit della BCE a cui partecipava il gotha della finanza europea, Mario Draghi incluso. Ecco, lì un gruppo di psicologi ed economisti presentò una ricerca – si chiamava Inflation Expectation-a Policy Tool – che mi colpì moltissimo, perché in sostanza concludeva che se i cittadini, le famiglie, le imprese avessero avuto un’informazione più chiara sulle conseguenze della crisi economica del 2008, avrebbero messo in atto delle strategie che molto probabilmente avrebbero ridotto i danni subiti. Ciascuno di noi probabilmente ricorderà che la parola ripetuta ossessivamente in tutti i contesti in cui si parlava della crisi era spread: per molte persone e per le loro condizioni del momento, però spread non significava nulla. Non diceva nulla a loro che, in quel momento, stavano decidendo se cambiare lavoro, se acquistare un’automobile, se fare un investimento per l’impresa che guidavano… Esattamente come l’altra grande parola del momento, inflazione. Ma avrebbero detto invece tutto, quei due termini – importantissimi, direi cruciali per il futuro individuale di ciascuno e per il futuro collettivo – se fossero stati spiegati: sarebbero, anzi, diventati una sorta di bussola. Ecco, quel team di studiosi aveva rivelato che le parole – quando sono quelle adeguate, quelle precise, che si basano sui fatti, che infondono fiducia e, perciò, muovono all’azione nel modo giusto – possono fare la differenza e cambiare il destino di uomini e donne, famiglie, imprese”.
Usare un vocabolario comune e condiviso, che rispetti il modello mentale di tutti, così come i valori di cui ciascuno è portatore è essenziale anche per costruire un brand o un prodotto digitale. Per comunicare davvero, dunque per arrivare a ciascuno, secondo la sua filosofia le parole devono essere accessibili e per essere accessibili devono essere in primo luogo inclusive. Cosa vuol dire? E che differenza c’è tra essere accessibili ed essere inclusivi?
“Includere significa portare dentro chi è fuori. E per farlo dobbiamo prima riconoscere cos’è fuori, e quali sono i motivi che hanno separato questi due spazi. In ogni caso, un testo accessibile è quello che è facile da capire, dire e usare per qualsiasi persona. Quello inclusivo è quello che, oltre a essere accessibile nel modo appena detto, compie un passo in più: fa sentire ciascuna persona rappresentata nella sua specificità di valori, esperienze, scelte. Un linguaggio inclusivo comprende tutte le persone per età, scolarizzazione, etnia, genere…E riconosce la differenza di ciascun modello mentale, accogliendolo”.
Come si fa a capire se si sta usando o meno un linguaggio inclusivo? Nel suo libro lei sostiene che scrivere in maniera inclusiva significa esplorare questioni spinose e delicate, esporsi al dubbio che non si stia facendo la cosa giusta, farsi domande scomode, anche se non si ha voglia di farlo. Ci dia un esempio di queste domande.
“I testi che scrivo mostrano che parlo da una posizione di privilegio? La mia visione si basa solo sulla mia esperienza? È offuscata da alcuni pregiudizi, per esempio da bias di genere? Il mio testo è discriminatorio o offensivo per una parte della popolazione? Queste sono domande essenziali, perché è chiaro che chi scrive può facilmente commettere un inciampo e finire per costruire contesti da cui alcuni utenti possono sentirsi esclusi. Il linguaggio negativo e discriminatorio si palesa attraverso molte forme: divieti di accesso, forzature sull’identità, esclusioni, esperienze psicologiche frustranti… Per esempio, ormai sappiamo che per molte persone è frustrante dichiarare la propria età. Molti siti, al contrario, commettono l’errore di inserire fasce d’età in cui riconoscersi e che, comunque, in diversi casi non vanno oltre i 65 anni”.
Oppure, dopo aver articolato in vari segmenti le età dai 18 anni ai 65, oltre quella fascia indicano un generico oltre 65 anni, come se oltre quell’età ci fosse un’indistinta vita passiva e senza sfumature, che accomuna indifferentemente chi ha 66 anni, chi 76, chi 86 e che non merita l’attenzione e la cura dedicate alle fasce più giovani: anche questa è una forma di discriminazione, no?
“Purtroppo è così. Io, infatti, sono dell’idea di togliere l’indicazione anagrafica dai format di registrazione e i miei suggerimenti alle aziende vanno, finché è possibile, in questa direzione: non c’è niente di peggio che iniziare una relazione, umana o commerciale che sia, con un’offesa. Per non dire che siamo un Paese in cui la percentuale degli over 65 sta crescendo in maniera impressionante e rappresenta un insieme di persone che chiedono servizi, oggetti, esperienze molto diversificati. In ogni caso, sempre più persone non amano sentirsi definite in una categoria, qualunque essa sia. Compiere questo genere di errori può costare molto caro”.
Un altro campo su cui è facile spendere parole che escludono è quello relativo al sesso e al genere, perché oggi c’è un crescente desiderio di sentirsi rappresentati oltre i canoni tradizionali maschio-femmina, uomo-donna.
“Sì, e peraltro c’è una diffusa confusione sul significato di genere e sulla differenza tra genere e sesso. Spesso nella profilazione dei siti si aggiunge alla convenzionale divisione Femmina/Maschio voci come “altro”, “non binary”, “preferisco non dirlo”. Ma altro sembra dire che c’è una cosa giusta e un’altra cosa e non binario fa più o meno lo stesso. La soluzione migliore, quando è possibile, sarebbe permettere alla persona di autodefinirsi in un campo libero o, meglio ancora, non chiedere nulla. Perché è così importante che l’altro sia definito? In fondo, a scavare bene nelle motivazioni che spingono un’azienda a chiedere il sesso di appartenenza nella registrazione o nell’accesso a un servizio c’è molto spesso la consuetudine, il si è sempre fatto così, oppure stereotipi che attribuiscono a donne e uomini comportamenti o attitudini diversi, rigidamente legati al genere. Ma il dato in sé non ha sempre valore: ce l’ha il motivo per cui lo cerco. Ben più complicata la questione del pronome – in inglese si usa “they/them” al posto di “she/her” e “him/his” – o anche quella dei maschili usati per rappresentare anche i femminili”.
Lei cita un altro caso – la destinazione di un prodotto o di un servizio a precise categorie professionali – come esempio di comunicazione escludente.
“Certo. Faccio il caso di Photoshop, che all’inizio era – espressamente e per volere dell’azienda- indicato per graphic designer, fotografi, illustratori… Poi l’azienda ha capito che aveva scelto una formula prescrittiva e non inclusiva, perché lasciava fuori i tanti che non erano graphic designer, fotografi e illustratori ma che lo stavano diventando o avrebbero desiderato esserlo. Insomma, è diverso dire: questo software ti aiuta a creare grafici, fotografie, illustrazioni… Il linguaggio che, di volta in volta, decidiamo di usare assegna un valore alle parole e queste hanno l’enorme potere di accogliere o, al contrario, di lasciare fuori. Essere consapevoli di questo potere e agire di conseguenza modifica profondamente l’effetto che le nostre conversazioni hanno con le persone e le relazioni che instauriamo”.