Vi raccontiamo la nostra visita al Mori Building Digital Art Museum realizzato da teamLab, un ambiente che miscelando realtà virtuale e arte figurativa va oltre i concetti di museo, mostra e arte.
Definirlo un museo unico non centra il punto, perché il Mori Building Digital Art Museum di Tokyo non va considerato un museo. Non almeno nell’accezione standard con cui il termina delinea uno spazio espositivo alle nostre latitudini, perché se è vero che non c’è un luogo simile a quello messo a punto dal teamLab – il collettivo giapponese composto da circa 500 tra architetti, programmatori, ingegneri e artisti digitali – negli oltre diecimila metri in cui si susseguono installazioni, giochi di luce, animazioni ed esperienze immersive tra labirinti, saliscendi e pareti che prendono improvvisamente vita, c’è una rappresentazione futuristica che ridisegna i concetti di museo, mostra e arte.
Ma andiamo con ordine, partendo dal suggerire come arrivare a dama agli interessati che si recheranno nella capitale giapponese: la meta da raggiungere è l’isolotto di Odaiba (noto per la statua a grandezza naturale del Gundam, alto 19,7 metri), che nei diciotto mesi è diventata una tappa obbligata per turisti nazionali e internazionali. La stazione Aomi, fermata del trenino che collega la metropolitana più vicina al museo delle arti digitali, ha registrato infatti un incremento del 50% di presenze dopo l’apertura del Mori Buidling, che nel corso del primo anno ha accolto 2,3 milioni di visitatori, provenienti da più di 160 paesi, con statunitensi, britannici, australiani, cinesi e canadesi a guidare gli appassionati internazionali (che ammontano al 50% del totale).
Grandi numeri
Raggiunto il punto di interesse – con il percorso che prevede l’attraversamento di un mega showroom Toyota, al cui interno spiccano alcune concept di auto a idrogeno, tecnologia su cui sta investendo il colosso nipponico – e varcato l’ingresso, in meno di cinque minuti, comprensivi di fila, ho stampato il biglietto (3.200 yen, che con il cambio attuale sono poco più di 27 euro) mediante il sistema elettronico di vendita in loco (ma sono stato fortunato perché spesso si creano lunghe file, quindi l’acquisto anticipato sul sito è l’opzione migliore). Prima di entrare passano alcuni minuti, mentre sul display sopra le tende nere che demarcano l’entrata si susseguono frasi in inglese e giapponese che, come quelle scritte sulla parete sottostante, forniscono informazioni su ciò che si sta per vedere e le regole di comportamento: tra le varie mi colpiscono un paio di indicazioni, una sull’oscurità che caratterizza gli spazi comuni, l’altra sulla possibilità di non riuscire a scoprire tutti gli ambienti, proprio perché il buio può giocare brutti scherzi.
Una mutazione costante
Una volta dentro, la sensazione è di una discesa nelle tenebre interrotta solo da una improvvisa biforcazione che, col flusso continuo di visitatori, costringe a scegliere una delle due vie in pochi attimi e in maniera causale. Altre tende, altro ingresso e stavolta ci si ritrova attorniati da fiori, foglie e farfalle colorate in un continuo divenire, mentre una musica soave accompagna il fluire dei pensieri. Grandi e piccoli seguono le animazioni in movimento, amici e fidanzati si distendono a terra per filmare l’attimo da ricordare (e condividere sui social) in uno scenario dove il fluttuare degli elementi fa perdere la cognizione del tempo, favorendo lunghe passeggiate alla scoperta delle piccole sale interne (dove svettano le immagini delle metamorfosi di figure animalesche), che si individuano di tanto in tanto durante il giro mirato a scovare ogni angolo della Flower Forest.
Nessun percorso, migliaia di percorsi
L’effetto wow, spesso abusato ma stavolta guadagnato sul campo, suscita il desiderio di andare oltre per scoprire la prossima tappa. E qui si sbatte contro una delle peculiarità dell’ambiente creato da teamLab, perché al Mori Building non esiste un percorso predefinito ma ognuno si muove come e meglio crede: del resto il nome completo integra la dicitura “teamLab Borderless“, proprio per sottolineare l’assenza di confini prefissati. Si passa così dal labirinto di specchi, che con la quasi totale oscurità mette a dura prova il senso di orientamento (e qualcuno lo perde, finendo per sbattere sui vetri), ad ambientazioni in stile clubbing caratterizzate da soffitti bassi, suoni più ritmati ed effetti speciali creati ad hoc miscelando luci, laser e colori. Senza dimenticare le aree per i bambini e quelle neutre, utili per rinfrescarsi e, ancor più, per placare lo spirito assetato di novità.
Tappa obbligata
Una scalinata semi oscura introduce allo spazio più famoso del museo digitale: la Forest of Resonating Lamp. Nonostante Google indichi il numero di visitatori in tempo reale sotto media, per accedervi bisogna stare in fila per circa quindici minuti e godersi il breve tempo concesso per osservare la pioggia di lampade che riempiono l’area delimitata da vetrate di grandi dimensioni: gli effetti luminosi dipingono l’ambiente di rosso, poi blu e infine arancione, mentre la quasi totalità dei presenti si perde dietro alla fotocamera dello smartphone. Guadagnando poi l’uscita la prima riflessione è fin troppo scontata, perché non vi è dubbio che ci si sta lasciando alle spalle un’esperienza senza eguali, esaltata dalla coniugazione di realtà virtuale e arti figurative, in un viaggio che coinvolge vista, udito e tatto in un costante alternarsi tra sorpresa, disorientamento e stupore. Proprio per questo, il Mori Building Digital Art Museum è un passaggio obbligato quando si passa da Tokyo.