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«O dio mio sto cringiando!»

Se n’era uscita così mia figlia, durante un pranzo, e fu il mio primo incontro con la parola cringe

“L’avrà sentita da suo marito, informatico, roba da nerd”, pensai, senza darci peso. 

Non avevo colto che commentava una battuta che avevo appena scambiato con il ristoratore, a mio giudizio piuttosto arguta e spiritosa. Ora che ho appena avuto una nipotina (mi sa che è cringe pure dire qui che ho avuto una nipotina), penso a come sarà dura non far cringiare lei.

Sì, sembra essere proprio cringe la parola simbolo delle difficoltà nel dialogo intergenerazionale. Ma se l’associamo solo a quella smorfia, quell’arricciare le labbra, contorcere il naso, contrarre le sopracciglia e inclinare il capo, insomma quel disgusto per qualcosa che è e non dovrebbe essere (questa, dall’Huffpost, una delle tante rappresentazioni, ma la rete è piena anche di meme sul tema), ne cogliamo solo la forza esclusiva. Fedeli allo scopo di questa rubrica, che è promuovere i linguaggi inclusivi, proviamo qui a trattarla come ponte, e non come muro, tra sensibilità, ideologie, culture, generazioni diverse. 

Cominciamo allora a scavarci un po’ dentro, con la cautela di chi cerca di muoversi tra imprecisioni, ingenuità, approssimazioni. 

Quando nasce la parola 

L’11 gennaio 2021 cringe entra nell’elenco delle nuove parole dell’Accademia della Crusca, con l’etichetta  “giovani rete, social media”, con bivalenza sostantivo-aggettivo, e con la definizione:

Agg. ‘imbarazzante, detto di scene e comportamenti altrui che suscitano imbarazzo e disagio in chi le osserva’.
Sost. 1. ‘la sensazione stessa di imbarazzo’; 2. ‘il fenomeno del suscitare imbarazzo e, in particolare, le scene, le immagini, i comportamenti che causano tale sensazione’.

Dall’inglese to cringe, nei significati di ‘to draw in or contract one’s muscles involuntarily (as from cold or pain)’ (rannicchiarsi o contrarre i muscoli involontariamente come per il freddo o per il dolore), ‘to recoil in distaste’ (indietreggiare per il disgusto), ‘to shrink in fear or servility’ (rannicchiarsi per paura o per servilismo) e infine ‘to feel embarrassed and ashamed about something’ (provare imbarazzo e vergogna per qualcosa); sostantivo cringe ‘the act of cringing’.

Ma ci sono flash precedenti. In inglese la parola è attestata da secoli, ed è riferita al piegare il capo, o il busto, come atto di sottomissione al nemico. Nel 2011, su Twitter, viene adottata dalla cultura globale e caricata di un senso nuovo: l’idea di contorsione non è più davanti al nemico, ma a una situazione imbarazzante. Sempre via web arriva all’uso comune, in particolare da quando iniziano a spopolare, nel 2015, alcune raccolte di videoclip intitolati Try not to cringe: pieno spirito di sfida, prova a non imbarazzarti guardando questi video.

Poco prima della Crusca, nel 2020, la cantante Beba, leader del female rap italiano, con un brano dal titolo Cringe aveva smascherato la condizione di chi cede alla dipendenza dai social, criticando chi li usa per mostrare una vita perfetta che in realtà è finzione. Sarebbero loro il vero cringe.

Vorresti essere lei, vuoi tutto ciò che non hai
Tutta piena di like, sì, ma non ti piaci mai (No, no)
Ibiza, Hawaii, passi a fare storie quasi tutta la festa
Questi social ti hanno dato alla testa
(… …) Più marketing che musica sul tuo Insta ID
Non bastano i seguaci per pagarti il feat

Cringe, cringe, io penso soltanto tu sia cringe

Un cocktail d’imbarazzo e sfida, persino nell’appello rivolto agli ascoltatori a cercare nuovi orizzonti oltre a quelli di tendenza nel web (Mi sono rifatta il senno, ne vuoi un po’?).

Ancora più sprezzanti Salmo e Noyz Narcos, nell’omonimo brano del 2023, velenoso contro i giovanissimi che bollano la loro musica come cringe, e pronto al contrattacco sui loro idoli fasulli.

Odio ‘sti bambini che mi scrivono “cringe”
Ti squarcerei quella fottuta laringe
Hai visto che ridicolo il tuo idolo che finge 

In studio fa il fenomeno e dal vivo non spinge

Quindi cringe è qualcosa di finto e inappropriato, che genera disgusto e imbarazzo? In un certo senso sì, ma andiamo più a fondo.

Imbarazzo/vergogna sì, ma preventivo/a

In realtà cringe non è pari pari “imbarazzante”: se da un lato esprime il disagio per un comportamento fuori tempo o fuori luogo, in un’altra sfumatura descrive uno stato d’animo che, quell’imbarazzo, addirittura lo anticipa. 

Per intenderci: la famosa scena di Emilio Fede che apre un Tg4 con «Che figura…» è imbarazzante, non cringe. Prendere schiaffi dalla mamma in presenza degli amichetti era sì imbarazzante, pure umiliante, ma neanche lontanamente cringe.

Imbarazzante è un participio presente: indica un’azione in corso, esprime contemporaneità. Il cringe più puro si manifesta ancora prima: è quella sensazione di allarme legata a un qualcosa che temiamo stia per accadere e che ci sembra goffo, fuori posto, che ci fa appunto ritrarre lo sguardo, storcer la bocca o coprire il volto. Per esempio, da ragazzi, solo l’idea che la mamma mostri ai nostri amici le foto da bambini si traduce poi in imbarazzo vero e proprio quando accade. È dunque ciò che va evitato per non finire in situazioni imbarazzanti. 

Un po’ come quando, volendo rafforzare un concetto alla cena tra amici, o alleggerire la riunione tra colleghi, mostriamo quella scena di Fantozzi o di Mr Bean che ci aveva fatto sbellicare, e subito si forma nella nostra mente, prima che sui loro visi, un frustrantissimo punto interrogativo.

Del resto, l’etimo di imbarazzare è proprio “mettere o intrappolare in una barra o in un ostacolo”, che poi è la situazione sconveniente da cui è difficile uscire. 

Altre situazioni per cringiare

Ci sono poi altre situazioni che possono farci cringiare, soprattutto se osservate in terza persona. 

Venerdì sera: un signore entra con convinzione in un bar elegante, sgargiante camicia a fiori con spalle imbottite. Dettaglio curioso: la serata non è a tema anni ’80, e quella moda pareva ben archiviata. Sentiamo i peli rizzarsi? Ok, è cringe. 

Oppure: primi flirt (si può dire flirt, o è cringe?), 13 anni o giù di lì. Gioventù e ingenuità ti convincono che quello sarà l’amore della vita. Poi arriva settembre, e ne resta un ricordo sbiadito. Molti anni dopo, se ritrovi i messaggi o le letterine di quell’estate, il collo ti si piega da una parte. Ti vedi da fuori, e rieccoti nel cringe. 

Somiglia a ciò che il filosofo Tonino Griffero, nel saggio Quasi-cose, definiscevergogna vicaria:

Ci si vergogna per chi non si vergogna affatto. L’atmosfera suscitata da un comportamento vergognoso contagia i presenti incolpevoli, talvolta persino quando questi si limitano a prevedere tale comportamento.

Una vergogna per conto terzi, tipo quella che proviamo al bar sentendo chi si vanta di aver ricevuto il progetto dal mobiliere, e poi col disegno in mano ha chiesto altri sei preventivi e scelto il più basso; o di lavorare solo in nero perché mica son scemo da mantenere tutta ’sta gente; o di averne fatte sei (forse sette) la notte scorsa. 

A osservarlo più da vicino, comunque, il campo semantico di cringe sembra essere in larga misura generazionale. Potremmo riconoscerlo come l’imbarazzo legato alle cose invecchiate male. Come l’effetto – provocato o subìto, già attuale o imminente – dell’interazione tra due o più individualità, o tra differenti visioni storiche, valoriali, comportamentali. Se non combaciano, siamo in territorio cringe. Cringiamo quando sentiamo che imbarazzo/vergogna ci stanno pervadendo e, pur malvolentieri, ci accolliamo anche l’imbarazzo/vergogna che provano altre persone quando ci pensano. 

Cringe min

Dizionario minimo 

In altre pagine abbiamo parlato del confronto tra età diverse e degli stereotipi che possono seguirne, sfociando magari in discriminazioni e svalorizzazioni: l’ageismo, appunto. Qui, dopo cringe, la tentazione è quella di scavare dentro altre parole che potrebbero far sentire “straniere” generazioni semplicemente diverse. Esempi:

  • CREEPY: strisciante, raccapricciante, spaventoso, che fa accaponare la pelle; qualcosa o qualcuno che suscita inquietudine
  • CRUSH: non c’entra con lo schiacciare, una crush è un’attrazione fortissima per qualcuno; si usa anche in forma personalizzata (Crush oggi m’ha scritto)
  • GHOSTING: dopo un periodo di frequentazione anche intensa, sottrarsi all’improvviso, non 
  • MORTO/A: effetto divertito, o frustrato, o incredulo (mi racconta sta cosa e, tipo, io morta)
  • PESO: persona non facile da sopportare (sto tipo è bello peso); utile anche per dire “che sbatti” (peeeeso)
  • SUPER/STRA: prefisso onnivalente di amplificazione, che sia aggettivo o sostantivo o verbo (supercarino, superinteressante, supersbatta, ti superlovvo…). Varianti: top, toppissimo, cool, yeah
  • SPINGERE: sta per “ok” con entusiasmo (Andiamo a Tenerife? Sì amò, spingere ci sta un botto), utile anche quando si è carichi per fare qualcosa (abbiamo 3 ore di tempo e 150 cose da fare, daje raga si spinge), o per fare un complimento rispetto a una situazione (Amò primo stipendio 1200 netti; Wow teso spingere!), anche nel senso di continua così
  • VAI TRA/ IN TRA: sta’ tranquillo, anche nel senso di figurati, non ti preoccupare, nessun problema. Interessanti le omonime canzoni di Ghali e di Lolo

Ma ne uscirebbe l’ennesima spigolatura del gergo giovanile, che ingombrerebbe queste colonne e che poi ha già altri esempi ben più illustri. Quindi ci fermiamo, e rimandiamo l’appagamento di altre curiosità a questo dizionario minimo, non per dare suggerimenti di lingua, ma solo per raccontare il genio di alcune parole dei giovani, in una minima rappresentatività. 

Mischiare, non scimmiottare

Occhio: un dizionario, specie se minimo, può aiutare a capire. Stop. Rischiosissimo l’andare in riproduzione. Se un boomer risulta cringe, infatti, può essere anche perché ha cercato goffamente di sembrare giovane. È la mancanza di autenticità, la goffa imitazione (quella merita il superlativo, cringissima o super cringe!).

L’adolescenza è un’età difficile, caratterizzata dalla ricerca di sé: nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, l’uso di un linguaggio autonomo permette di acquistare una propria identità, un senso di indipendenza nei confronti del mondo esterno. Questa forma di riconoscimento, di appartenenza, può creare una contrapposizione tra “noi che ci capiamo” e “voi che parlate diverso”. Spesso gli adulti, quando vivono il gergo giovanile come oscuro, tendono a svalutarlo, ridicolizzarlo, o a o irritarsene. Se poi, invece, volendo instaurare un rapporto “da amici” con i figli (super cringe!), i genitori tentano di riprodurre quel gergo, è la fine.

Per intenderci, non suggerirei a un amico di rincuorare così la figlia appena scaricata dal partner: «Ah Crush ti ha friendzonato? Dai non fare troppo la presa male».

Più fruttuosa potrebbe essere la contaminazione. Per i genitori, significa coltivare curiosità, ma tenendo distanza, per garantire ai figli spazio di autonomia e protezione dalle interferenze. Nel contempo, spronare i figli a maneggiare entrambi i registri: la “loro” lingua, ma anche quella più formale, per i contesti che lo richiedono. Abilità non così diffusa.

Il bello delle parole, dopo tutto, non solo quelle nate dalla cultura di Internet, è proprio la loro natura mutevole, la loro disponibilità a farsi usare da chiunque.