I 21 milioni di euro di fondi stanziati per la ricerca in agricoltura saranno concentrati su biotecnologie sostenibili e tecniche innovative di miglioramento genetico. Intervista con Alessandra Gentile (Crea)
”Dopo anni di trascuratezza, finalmente la ricerca nel settore primario viene riconosciuta strategica per lo sviluppo del Paese e noi investiremo nelle biotecnologie e nell’agricoltura digitale”. Lo afferma Salvatore Parlato, Commissario del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, Crea, riferendosi ai 21 milioni di euro stanziati dalla legge di Stabilità al piano triennale di ricerca agricola. Ma come e in che cosa verranno investiti questi soldi? Lo abbiamo chiesto ad Alessandra Gentile, prorettore dell’Università degli Studi di Catania, Commissario delegato Crea. “Il piano di finanziamento riguarda in parte le biotecnologie sostenibili intendendo con tale termine una serie di interventi che saranno realizzati mediante tecniche innovative di miglioramento genetico di recente definizione e diverse da quelle riguardanti l’ottenimento di Ogm”, spiega Gentile. “Queste tecniche saranno applicate su diverse specie, tutte di grande interesse per le filiere del made in Italy. Lo stanziamento di 21 milioni dovrà soddisfare esigenze diverse incluse quelle legate all’utilizzo dell’agricoltura di precisione, al trattamento di big data, all’impiego dell’informatica, ecc. In sintesi i progetti riguardano le più importanti specie delle filiere agricole del nostro Paese ed ovviamente gli obiettivi per ciascuna di queste specie sono in linea con le esigenze che le singole colture esprimono in merito al miglioramento ed adeguamento delle varietà e, in alcuni casi, dei portinnesti. Ove possibile, attenzione è stata prestata alla possibilità ed alla opportunità di valorizzare i risultati delle ricerche sul sequenziamento del genoma di queste specie, spesso ottenuti con il contributo italiano, ma anche attraverso collaborazioni con reti internazionali. Il sequenziamento del genoma è infatti spesso un prerequisito per sviluppare programmi di miglioramento genetico mirati, intervenendo cioè solo e soltanto su alcune caratteristiche. Gli obiettivi specifici sono diversi ma è possibile indicarne alcuni abbastanza comuni per molte specie, mi riferisco in particolare alla necessità di costituire varietà maggiormente resistenti ad alcuni patogeni, anche di nuova introduzione, e che spesso diventano più virulenti, aggressivi in relazione ai cambiamenti climatici.
Secondo lei, Expo ha contribuito a mettere in luce agli occhi del pubblico la necessità di una maggiore ricerca nel settore agricolo?
“Expo ha rappresentato una straordinaria vetrina per le eccellenze alimentari dei diversi Paesi, primo fra tutti ovviamente il Paese ospitante. Oltre 20 milioni di visitatori hanno avuto modo di conoscere le tante agricolture che coesistono nel mondo ed anche nel nostro Paese. Ambienti diversi, modelli diversi, obiettivi diversi con un unico obiettivo “Nutrire il pianeta”. Quello che spero e che credo sia riuscito a passare come messaggio è che l’agricoltura è una attività economica; essa è esercitata dall’uomo. Il suo esercizio può essere più o meno invasivo ma è l’uomo che la governa. Dico ciò perché è importante capire che l’agricoltura non è un settore statico o tradizionale o immutabile nel tempo. E’ un settore in evoluzione, che ha bisogno di adattarsi ai nuovi vincoli e per fare ciò ha bisogno di innovazioni che possano contribuire alla sua sostenibilità. E’ per questo che credo sia importante che sia stato dato adeguato spazio ai risultati della ricerca in questo settore”.
Qual è lo stato dell’arte della ricerca italiana nel settore dell’agricoltura rispetto alla media europea?
“L’Italia ha avuto e continua in parte ad avere un ruolo importante nel panorama della ricerca agricola in ambito europeo. Non dimentichiamo che sono parecchi i soggetti che sul territorio nazionale, in toto od in parte, si occupano di ricerca nel settore agroalimentare: Università, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea), Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr), Enea, Enti regionali, solo per citare quelli più importanti. Ovviamente tutti questi Enti devono fare i conti con un problema di carattere generale che fa riferimento alla riduzione delle risorse e da questo punto di vista l’Italia non è certamente ai primi posti per quanto riguarda la percentuale di Prodotto Interno Lordo che destina alla ricerca in generale. Occorre però sempre più valorizzare le professionalità presenti ed attivare circoli virtuosi e sinergie per ottenere risultati utili. Negli scorsi anni ad esempio l’Italia ha investito tanto nel settore della genetica avanzata contribuendo e dando un contributo decisivo ai progetti di sequenziamento del genoma di diverse specie. Questi risultati oggi pongono il nostro Paese in una posizione di autorevolezza per la gestione di questa mole di conoscenze che auspicabilmente potranno essere a breve valorizzate. Per questo percorso il Ministero affida al Crea il coordinamento di questo progetto anche attraverso l’attivazione di opportune competenze esterne. Quello che mi preme sottolineare è che il Crea è un Ente radicato sul territorio, che ha una lunga esperienza nella diffusione dei risultati della ricerca, anche attraverso una capillare rete di aziende di proprietà o private ma con le quali esiste un rapporto consolidato e fiduciario. Tale radicamento sul territorio è a mio avviso un grosso valore aggiunto perché fa sì che i ricercatori abbiano diretta contezza delle esigenze del mondo agricolo e ne tengono conto per la definizione degli obiettivi. Non solo: rappresenta una garanzia del fatto che i risultati che via via saranno ottenuti possano essere rapidamente validati in condizioni reali e possano fornire le ricadute attese in tempi medio brevi”.
Andrea Oliviero, vice-ministro alle Politiche agricole con delega al bio, ha dichiarato recentemente che ”L’approccio, rigorosamente scientifico ci dovrà mettere nelle condizioni di scegliere a ragione veduta e di non impoverire il nostro Paese rispetto a quelle che possono essere le potenzialità di queste tecnologie”. Lei pensa che la scienza possa abbattere i pregiudizi che esistono oggi sul tema Ogm?
“Io credo che occorre uscire da questa logica. E lo dico da scienziata che non può fare a meno di ribadire le grandi potenzialità tecnologiche che gli Ogm hanno rappresentato. Detto ciò abbiamo tutti l’obbligo di guardare al di là di questa diatriba ed oggi ne abbiamo la possibilità attraverso il finanziamento di un progetto di ricerca che va ben oltre gli Ogm e punta su innovazioni che, auspicabilmente, nel volgere di un decennio, potranno fornirci risultati per una nuova rivoluzione verde, attraverso tecniche che di fatto mimano tecniche tradizionali di miglioramento genetico consentendo di ottenere risultati sovrapponibili a quelli ottenibili attraverso i naturali processi di incrocio ( la cisgenesi) o l’insorgenza di mutazioni spontanee (genome editing) Tali risultati si muovono nel solco della genetica avanzata ma sono più smart, se mi si passa il termine, e di fatto renderanno obsoleta e priva di interesse la questione degli Ogm che francamente non mi appassiona più, anche perché zeppa di preconcetti e di suggestioni che nulla hanno di scientifico”.
L’Italia è un Paese Ogm free: come valuta questa scelta se confrontata col panorama economico e scientifico europeo?
“L’Italia ha fatto a suo tempo una scelta che dal punto di vista della stragrande maggioranza della comunità scientifica è considerata non adeguata, soprattutto con riferimento al divieto imposto alle sperimentazioni. Oggi l’Italia e la sua comunità scientifica hanno la possibilità di ricollocarsi al vertice del panorama della ricerca europea e internazionale in ambito agrario, valorizzando gli sforzi fatti per il sequenziamento dei genomi ed avendo la possibilità di investire con sforzi economici non di poco conto in settori che tutti i paesi avanzati considerano cruciali per lo sviluppo della moderna agricoltura. La sfida è lanciata, non ci resta che lavorare sodo”.