La storia di Ritesh Dwivedy, genio di Just Eat India e della sua nuova creatura, Petoo, con cui incrocia precedenti scelte dei clienti e altri fattori, dal meteo al calendario, per prevedere il volume degli ordini per le consegne
I big data non servono solo a far girare meglio trattori e contadini. Servono anche a ottimizzare le consegne a domicilio dei cibi. Servono, in una parola, a far girare meglio il business. Perché ogni zona di un Paese e ogni quartiere di una città hanno le proprie preferenze in fatto di cucina. Tradotto: le persone ordineranno spesso certi piatti e meno frequentemente degli altri, secondo schemi solo in parte sovrapponibili a quelli di altre aree. Ecco perché, molto semplicemente, averne consapevolezza può costituire la svolta per chi, in varie formule, si occupa di food delivery.
Petoo, con gusti e meteo prevede gli ordini
Lo racconta una storia che arriva dall’India. Dopo l’epidemia aviaria nel Midwest statunitense, che ci ha fatto capire il potenziale dei nuovi cibi in termini di resilienza, bisogna infatti proiettarsi dall’altra parte del pianeta per scoprire quello che sta combinando Ritesh Dwivedy, ex fondatore e supercapo di Just Eat India, ceduta pochi mesi fa al colosso Foodpanda. Uno che la sa lunghissima.
In una frase: si tratta di un nuovo servizio di consegne a domicilio che ha battezzato Petoo (vero, in italiano non suona benissimo, d’altronde in hindi significa “mangioni”) ma che beneficerà della potenza dei big data per prevedere i volumi delle ordinazioni sui quali allertare i fornitori. Come? Facile: utilizzando i vecchi dati sulle abitudini gastronomiche dei consumatori incrociandoli con altri parametri che, in certe fasi dell’anno o della settimana, possono influenzare le abitudini alimentari. Avete capito bene: il delitto perfetto.
Il cibo è un fenomeno iperlocale
La vicenda – ben spiegata su e27 – vede nella ciurma anche altri elementi provenienti da Just Eat India come Abhishek Mandal, già capo delle operazioni. La cosa che colpisce di più è la clamorosa visione dell’imprenditore, che capovolge il principio da sempre al centro delle multinazionali, pronte a vendere ovunque la stessa cosa: “Il cibo è un fenomeno iperlocale – dice Dwivedy – città diverse in India si comportano in modi opposti in tema di scelte culinarie. Per esempio, a Hyderabad il biryani è ben più speziato di quello popolare che nella cucina mughlai. Il Vada pav (un panino con la frittata di patate, nda) non è così noto a Nord, Est o Sud rispetto a quanto lo sia nella parte occidentale dell’India. I dati mostrano che anche all’interno di una stessa città le preferenze mutano drammaticamente. Un esempio? A Bangalore, in un quartiere come Jayanagar, viene ordinato più cibo vegetariano che a Koramangala”.
L’elasticità nella standardizzazione
L’esito di queste riflessioni? Possono essere intelligentemente usate per gestire i menu e pianificare inventari col risultato di sprecare meno cibo (di solito, in India, se ne butta dal 5 al 10%, in Occidente, come noto, va molto peggio) quando non viene venduto, o farsi trovare prontissimi ad affrontare picchi di ordinazioni, magari in certi momenti della settimana. Per paradosso, e non solo in India, oggi col cibo a domicilio avviene il contrario: proprio quando, per esempio nel fine settimana, aumentano le prenotazioni, la capacità di ristoranti, catene e applicazioni che le mettono in rete di esaudire le richieste cala vertiginosamente.
Non basta: “Dai miei nove anni di esperienza trascorsi a costruire Just Eat – aggiunge il gastrotecnologo – ho capito che specifici eventi, condizioni meteo, festival, vacanze scolastiche e così via possono produrre un aumento o un calo della domanda di ristorazione a domicilio. Così, a Petoo, utilizziamo degli algoritmi per prevedere i volumi di ordini” tenendo in considerazione anche questi elementi. D’altronde più ci si azzecca meno sarà necessario assortire il proprio magazzino con merci che magari non saranno mai utilizzate procurando perdite e, al contrario, fare in modo che i cibi siano sempre preparati con ingredienti freschi. Siamo oltre il marketing, questo è chiaro: siamo in una filiera d’intelligenza artificiale che mette insieme il prima e il dopo, quanto consumato in passato col tempo che fa fuori dalla finestra. E con una logica di machine learning e intelligenza artificiale che consentirà di capire cosa avremo voglia di ordinare.
Una standardizzazione ma nell’elasticità che permetterebbe anche di migliorare il rapporto con la clientela, che in futuro tornerà così a ordinare. Lo schema? Certo, la situazione indiana non è minimamente paragonabile ma in fondo la strategia potrebbe tornare utile anche dalle nostre parti. Capire quali sono i piatti più gettonati in una certa microarea e preparare solo quelli, evitando esperimenti e proposte “esotiche” per le quali il mercato sarebbe ristrettissimo. Così come, d’altronde, lunghissimi menu finirebbero il più delle volte in un allungamento dei tempi e nell’indisponibilità di piatti spacciati per novità – e dunque con la delusione dei clienti. Il futuro è nei food data.