L’export cresce anche nel 2015. Ma i nodi non mancano. Il direttore generale di Federvini: “Migliorare la distribuzione e accelerare sul Ttip”. Bene l’accordo Intesa-Mipaaf, a patto che i finanziamenti vadano a chi li merita
Anche il 2015 si è chiuso con il segno più. Ma il vino, ammiraglia dell’agroalimentare italiano, deve già guardare a nuove sfide: più export e accordi commerciali, un sistema di distribuzione migliore. E una costante: la qualità. Perché, anche all’estero, il valore cresce più dei volumi. In altre parole: si beve meno ma si beve meglio. Attenzione però, il mare agitato dei mercati esteri non è per tutti.
Export: si beve meno, si beve meglio
L’Italia resta, anche nel 2015, il primo produttore mondiale di vino. Il bilancio resta positivo, nonostante una domanda interna che continua a faticare. Merito dell’export, cresciuto del 4,81%, a 5,5 miliardi di euro (cui si aggiungono altri 245 milioni dall’aceto). “Non era un risultato scontato visto il calo del 30% sul mercato russo”, afferma Ottavio Cagiano de Azevedo, direttore generale di Federvini. Calano invece del 2,31% i volumi (cioè gli ettolitri). Tradotto: si preferiscono vini di maggiori qualità alle sbronze. Come si nota anche da altri dati: crescono i Dop (+4,10%) e gli Igp. Cedono invece i vini comuni (-13,22%)
“Dipendiamo dall’export e punteremo sempre di più sulle esportazioni”, afferma Cagiano. Perché il mercato interno resta debole. Il vino non vive in una bolla. E la crisi della domanda si riflette anche sulla bottiglia. “Sul mercato interno ci sono due scenari. Il primo è economico: il settore patisce sul versante dei consumi. L’altro è normativo: siamo in attesa della nuova legge sulla vite e il vino che sarà cornice e struttura per l’intero settore: è un documento importante, che aiuterà la competitività e dovrebbe alleggerire le imprese dal peso della burocrazia”.
Cina e Usa: una nuova distribuzione
Quelli del 2015, dice Cagiano, “sono buoni numeri, ma ci sono le potenzialità per crescere, sia per valore che per volumi”. Dove? Gli Stati Uniti sono il principale importatore: 1,2 miliardi di vino italiano. Senza che si intraveda alcuna saturazione, vista una crescita del 13,78%. Un aiuto potrebbe arrivare dal Ttip, l’accordo di libero scambio con gli Usa in discussione dal 2013. Il punto di partenza di Cagiano è: “Tutti gli accordi commerciali facilitano l’export”. Nello specifico: “In alcuni casi sono più complessi”. Il Ttip è perfettibile: “Ad esempio – continua Cagiano – gli Stati Uniti tendono a tutelare solo il marchio e non la denominazione”. Ma l’utilità commerciale non è in discussione: le difficoltà non devono indurre a “rifiutare la firma, ma ad andare avanti a piccoli passi. Dobbiamo fare accordi che favoriscano l’export senza stravolgere le nostre regole. No al vino Coca-Cola ma sì a strumenti che rendano più facile il commercio”.
L’altro grande mercato su cui puntare è la Cina. La crescita è notevole (+18%) ma il giro d’affari è ancora limitato (90 milioni di euro), una frazione di quanto rendono Germania (982 milioni), Regno Unito (753 milioni), Canada (302 milioni) e Francia (170 milioni).
“In Cina non siamo ancora riuscita a sfruttare tutto il potenziale”, ammette il direttore generale di Federvini. Per due motivi: da una parte la difficoltà di un mercato molto frazionato. Dall’altra un sistema di distribuzione italiano da rafforzare (per la verità non solo in Cina).
“Ci sono regole protezionistiche da superare”, spiega Cagiano. “E poi la Cina non è un mercato ma tanti mercati: Shanghai non è Pechino. Le provincie sono molto più strutturate delle nostre regioni e rendono complicata la distribuzione”. Cosa possono fare i produttori italiani? “Dobbiamo crescere. Ci sono già più consorzi e più dialogo, ma dobbiamo rafforzare l’azione congiunta”. Perché la competizione non si gioca (solo) su fama e qualità. “È normale siano più efficaci quei Paesi, come Francia e Germania, che hanno investito di più e prima nella distribuzione”.
Le cantine, per qualche anno, si sono adagiate su quella rete informale costituita dai ristoratori italiani all’estero. “E’ stata la nostra fortuna: la buona immagina e i sapori sono stati il nostro veicolo. Ma anche il nostro limite, perché non si è creato un sistema di distribuzione forte”.
Intesa-Mipaaf, “esporti solo chi è in grado di farlo”
Un sostegno potrebbe arrivare dai 6 miliardi stanziati da Intesa Sanpaolo e ministero delle Politiche agricole. Risorse fresche, da investire nei prossimi tre anni. “È uno strumento utile perché può aiutare sia i giganti sia i piccoli produttori”. Con un però: “Il principio non dev’essere che chiunque può essere aiutato. Va aiutato chiunque sia in grado di reggere sui mercati esteri. Esportare non è un diritto”. Federvini, quindi, promuove il piano. A patto che non si cede a finanziamenti a pioggia.
La promozione dell’export è un obiettivo imprescindibile. Per raggiungerlo non serve snaturare la composizione economica del settore. I protagonisti italiani sono relativamente piccoli rispetto ai maggiori attori mondiali. Ma, secondo Cagiano, la crescita non passa necessariamente dall’aggregazione. “L’Italia è un Paese leader. E ha conquistato la leadership con questa struttura. Certo, ci manca la distribuzione all’estero. Ma dobbiamo lavorare sui piccoli e sulla professionalità. È questa la nostra forza. Non possiamo rivoluzionare tutto perché non ci conviene farlo”.
Verso il Vinitaly numero 50
Se la “prima internazionalizzazione” si è appoggiata sui ristoratori, la seconda “è più complessa, più strutturata, più professionale. Non si confronta solo con la ristorazione ma con la distribuzione globale e con una competizione aggressiva”, sottolinea Cagiano. Una competizione che passa anche dalle fiere. “I 50 anni di Vinitaly sono un traguardo importante che va celebrato riconoscendo il grande contributo della Fiera nella crescita del settore vinicolo italiano e nella sua affermazione sul panorama internazionale”.
Ma come l’intero settore, anche la Fiera può e deve migliorare: “Molto è stato fatto ma molto occorre fare ancora per far crescere il settore”. Per l’edizione del mezzo secolo, Federvini “ha grandi attese”. Magari limando quei difetti, come le difficoltà di connessione, che hanno caratterizzato le passate edizioni. “Sul successo della manifestazione incidono anche i servizi”, come internet. Perché Verona, al di là dell’aspetto divulgativo, “deve aiutare a fare business”.
“Credo che gli errori del passato si possano sistemare. Al momento non c’è un piano B, ma le regole sono quelle del business”. Tradotto: tutto deve funzionare al meglio per sostenere le imprese. Salutare Verona è ipotesi remota ma, senza sviluppo, non è impossibile. La direzione, in ogni caso, è quella di una maggiore integrazione del sistema-vino. Per questo Cagiano bolla come “anacronistico” il tentativo di una fiera regionale come Vintuscany. “Il sistema fieristico è più complesso, non basta avere grandi vini”. L’obiettivo “è essere più uniti all’estero”. Solo così sarà possibile “presentarci come Italia e come singolo territorio”.
Paolo Fiore
@paolofiore