L’acquacoltura europea fornisce solo il 20% del pesce che arriva sulle nostre tavole. Come fare fronte all’aumento di popolazione? Investendo in sistemi moderni. E in tecnologia. Come spiega Alessandro Lovatelli (Fao)
Il 50% del pesce che arriva sulle nostre tavole, a livello globale, è prodotto in impianti di acquacoltura. “Nei prossimi 25 anni la popolazione mondiale crescerà esponenzialmente, ci saranno 9 miliardi di persone. Come pensiamo di poter continuare a mantenere il consumo medio pro-capite di pesce (media mondiale 17 Kg a persona di consumo annuo di pesce, che oscillano dai pochi kg per persone dei Paesi africani ai 70 kg pro-capite del Giappone) se non con lo sviluppo di adeguate tecnologie nel settore dell’acquacoltura?”. La domanda viene da Alessandro Lovatelli, Aquaculture Officer del Dipartimento di acquacoltura e pesca della Fao. “La pesca non può colmare questa necessità – riprende Lovatelli – per quanto riguarda il pescato, l’obiettivo è mantenere l’attuale produzione, non certo aumentarla. Alcune specie sono ad oggi oggetto di overfishing, mentre per altre fisheries si stanno trovando equilibri che ne possano garantire la pesca sostenibile. L’acquacoltura interviene in previsione del futuro, per rispondere alla necessità crescente della produzione di pesce”.
Dall’Europa solo il 20% del pesce che arriva in tavola
L’industria dell’acquacoltura europea fornisce solo il 20% del pesce che arriva sulle tavole del nostro continente. L’Europa è infatti una delle regioni al mondo che importa più pesce: alcuni prodotti diffusissimi, come i gamberi e il pangasio dal Vietnam, derivano dall’acquacoltura. Pur conoscendo i vantaggi del consumo di pesce in termini di alimentazione sana, la produzione europea nel settore dell’acquacoltura stenta a decollare. “Ci sono molte ragioni che spiegano questo trend: la prima è che le specie che vengono allevate nell’area mediterranea sono poche. Gli europei amano consumare pesce di mare, ma ne allevano solo due: il branzino e l’orata. Il mercato però chiede prodotti diversi, razze caratterizzate da dimensioni maggiori, come il salmone i cui allevamenti si trovano soprattutto in Norvegia. C’è un forte bisogno di differenziare il mercato: a tal fine, l’Europa sta sostenendo e promuovendo molti progetti di ricerca nel contesto del programma Horizon 2020”, spiega Locatelli. Per questa mancanza di diversificazione, l’industria marina europea non sta crescendo. Si continua ad importare un’ampia gamma di specie da Paesi esteri, ma non si possiedono le tecnologie per progettare impianti di acquacoltura ad hoc.
Impatto ambientale, qualità, mangimi
Soprattutto nel recente passato, sono stati in molti a criticare l’acquacoltura, per la sua presunta mancanza di sostenibilità. Le critiche principali si sono concentrate prettamente sulla quantità e sulla qualità dei mangimi necessari per allevare una data specie, prodotti con altre tipologie di pesce. “Questi sono problemi superati”, commenta Locatelli, “l’industria dell’acquacoltura è un settore moderno, rispetto a molti altri tipi di allevamento come quello delle galline, dei polli o dei maiali. Negli ultimi 30 anni, sono state inserite nel mercato tecnologie incredibili: in quasi tutte le tipologie di allevamento ittico, si è arrivati al punto per cui un kg di mangime produce un kg di pesce. Un risultato raggiunto per gradi, prima si parlava di un rapporto di 10:1, 3:1 e infine di 1:1. Anche la qualità dei mangimi è cambiata: una volta la componente di pesce presente si aggirava intorno al 60-70%, ora è intorno al 20%, grazie all’introduzione di altri ingredienti come la soia. Questo grazie alla ricerca, che ha determinato una netta accelerazione del settore”. I mangimi a base di farina o olio di pesce che spesso vengono contestati all’acquicoltura, spiega Lovatelli, sono usati anche in altri tipi di allevamento, solo che il tasso di conversione in termini di proteine è decisamente superiore nell’acquacoltura e minore in tutti gli altri tipi.
Dove realizzare gli impianti
Gli impianti di acquacoltura possono essere realizzati sia sulla terraferma che in mare, in genere massimo a pochi chilometri di distanza dalla costa. “Realizzare impianti ad ampio respiro sulla terraferma diventa complesso per alcune nazioni che hanno un alto tasso di urbanizzazione”spiega Locatelli. “La presenza di acqua dolce è una conditio sine qua non per l’istituzione di un impianto, ma negli ultimi 20 anni la tecnologia si è evoluta a tal punto che siamo in grado di far funzionare un sistema di acquacoltura continuando ad usare la stessa acqua, con delle minime integrazioni una tantum che corrispondono alla quantità di acqua nel frattempo evaporata. Ma la ricerca si sta concentrando soprattutto sulle tecnologie necessarie per creare impianti in mare aperto, perché le coste sono spesso sfruttate per moltissimi scopi diversi e non sempre è possibile poter progettare un intervento adeguato. Servono però condizioni particolari, una profondità adeguata e le giuste correnti: questo tipo di ricerca rappresenta il futuro del settore”. Una delle regioni più all’avanguardia, in tal senso, è quella del Mar Rosso, che sta procedendo a una mappatura completa per capire come e dove poter eventualmente intervenire con impianti di acquacoltura, senza intaccare i fondali marini che rappresentano un serbatoio di biodiversità senza confronto.
Impatto ambientale
“Se una persona cammina sulla spiaggia, ha un impatto ambientale. Ogni attività umana ce l’ha, quello di cui dobbiamo preoccuparci è che quest’impatto preservi il più possibile le risorse naturali”, spiega Lovatelli. “Per quanto riguarda l’acquacoltura, c’è stato negli anni passati un impatto ambientale, perché non sapevamo come nutrire al meglio gli allevamenti o perché gran parte del mangime si disperdeva nel mare. La tecnologia però si è affinata, oggi sappiamo che se le tecnologie vengono usate a dovere, l’impatto è prossimo allo zero”, Secondo quanto precisato da Lovatelli, la letteratura scientifica riporta numerosi casi in cui l’acquacoltura è riuscita ad inserirsi più che positivamente nel contesto ambientale. “Alcuni tra gli esempi più positivi in questo senso sono gli impianti di acquacoltura per le alghe marine, presenti soprattutto in Paesi come Cina e Giappone. Diversi studi hanno dimostrato che l’acquacoltura algale ha un impatto positivo anche sull’ambiente circostante. Alcuni tra gli aspetti più importanti da considerare, per avere un minimo impatto ambientale, sono la qualità delle tecnologie con cui si nutrono i pesci e la minimizzazione della dispersione del mangime nelle acque marine”.
L’acquacoltura come traino per i Paesi in via di sviluppo
Nelle regioni più depresse del mondo, come l’Africa, l’acquacoltura non solo diventa un punto fermo per la produzione di proteine alimentari, ma offre anche crescenti opportunità lavorative. “L’Egitto rappresenta una sfida in tal senso: una popolazione crescente, mancanza di spazio e assenza di opportunità di lavoro. Il deserto offre però nuove opportunità al Paese: il Governo ha un programma chiamato “1.5 million feddan development”, ovvero 750 milioni ettari di deserto che vogliono utilizzare per produrre energie eolica e solare e per progettare impianti di acquacoltura, che sfruttino l’acqua fossile sotterranea. Uno degli obiettivi principali del programma è proprio quello di promuovere possibilità di impiego per i giovani”, conclude Lovatelli.