Il governo rispedisce al mittente i pressanti inviti della Commissione Europea a togliere il divieto di impiegarlo per i prodotti lattiero-caseari. La situazione e il rischio procedura d’infrazione
Non solo le polemiche per le tasse sulla casa. Un nuovo niet italiano a Bruxelles – bisogna vedere quanto reggerà, certo la querelle è destinata a proseguire a lungo – è arrivato sulla sacrosanta e lapalissiana formula per cui i formaggi e gli yogurt si fanno con il latte fresco. Non con quello in polvere o con surrogati di qualche altro genere. Un no secco per rispondere alla diffida della Commissione europea di porre fine al divieto di detenzione e utilizzo di latte in polvere, concentrato e ricostituito – previsto dalla stringente normativa nazionale, la legge n. 38 del ‘74 – negli stabilimenti che sfornano prodotti lattiero-caseari.
I punti del no
Su quali punti fa leva il governo italiano, che ora per bocca del ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina sostiene di aver rispettato gli impegni presi con chi lavora (e dà lavoro) nel settore? Fondamentalmente tre. Anzitutto l’aspetto chiave, quello cioè della materia non armonizzata su scala continentale. Ciascun Paese può dunque disporre di norme più restrittive rispetto agli spesso scivolosi desiderata degli uffici della Commissione.
Il secondo aspetto è che la legge italiana non produce effetti distorsivi della concorrenza rispetto al mercato del latte in polvere. Il terzo è che non c’è limitazione alla commercializzazione di formaggi che così siano stati preparati in altri Stati membri. Se proprio ci teniamo, fra l’altro, siamo liberissimi di comprare la caciotta tedesca, lo yogurt lituano o il caciocavallo polacco. Sono già nei nostri supermercati (o formalmente possono arrivarci) come d’altronde molti altri prodotti, dalle merendine ai gelati, realizzati con latte in polvere. Che è già possibile impiegare in Italia pure per produrre formaggi molli. Il che, in qualche modo, ridimensiona non poco il gran rifiuto nostrano.
Un ostacolo protezionistico
Se cedessimo su questo fronte – che pure in Europa considerano addirittura un ostacolo protezionistico alla libera circolazione delle merci – perderemmo secondo la Coldiretti 487 formaggi tradizionali censiti dalle regioni italiane. Anche se non si capisce esattamente perché, visto che quelle specialità non sarebbero minimamente toccate dall’eventuale allargamento della norma. In ogni caso, con un chilo di polvere di latte che costa 2 euro sarebbe infatti possibile produrre 10 litri di latte, 15 mozzarelle o 64 vasetti di yogurt.
Tutto uguale, stesso sapore, zero differenze fra territori e qualità dicono le associazioni dei produttori. “La polvere di latte – aveva raccontato tempo fa la confederazione – è un prodotto “morto”, privo di proprietà organolettiche, che può arrivare da qualsiasi parte del mondo. La disidratazione lo rende conservabile a temperatura ambiente per oltre un anno, con una rilevante perdita di valore biologico delle proteine”.
Per ora, il pericolo appare scampato: “L’impegno che abbiamo preso è stato rispettato – ha detto Martina nei giorni scorsi – si tratta di una scelta giusta per difendere la qualità dei prodotti lattiero-caseari italiani, in particolare in una fase delicata di mercato come questa. Abbiamo sempre ribadito il nostro no a passi indietro sull’utilizzo del latte in polvere per la produzione di formaggi. Chiediamo invece alla Commissione di fare un approfondimento sull’etichettatura dei prodotti derivati dal latte, per dare informazioni sempre più trasparenti al consumatore”.
Il rischio procedura d’infrazione
Come la si pensi, una storia emblematica dell’arzigogolato rapporto fra Bruxelles e le realtà territoriali. Già a giugno la Commissione aveva spedito una diffida, chiedendo di rivedere la legge che vieta appunto la detenzione e l’utilizzo di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito nella fabbricazione dei prodotti lattiero-caseari. Ed era arrivato un primo stop da Martina. Poi la nuova carica in agosto, firmata dal commissario all’agricoltura, Phil Hogan, convinto che le meno restrittive norme indicazioni europee non avrebbero influito sul made in Italy, vista la presenza di altri meccanismi come le certificazioni Igp e Dop. Nessuno, si dice, cambierà nulla negli stabilimenti italiani. Solo, sarà data l’opportunità a produttori esteri di insediarsi in Italia e lavorare con il latte in polvere. Ora il nuovo muro italiano. Vedremo se parerà l’urto della burocrazia continentale e di una probabile procedura d’infrazione.