A tu per tu con Massimo Labra, professore associato di botanica generale alla Bicocca di Milano, per parlare dell’applicazione della biologia sintetica nel settore food
Era il 2015 quando Nick Ouzounov e Alexander Lorestani sono entrati nell’acceleratore biotecnologico IndieBio, con sede a San Francisco. Il loro obiettivo era ottenere grandi quantità di proteine per funzioni specifiche, partendo da un microbo. I due dottorandi di Princeton puntavano inizialmente ad applicazioni farmaceutiche, come la produzione d’insulina.
È stato Ryan Bethencourt, cofondatore dell’acceleratore, che ha incoraggiato i giovani a concentrarsi su possibili applicazioni della proteina che riguardassero l’ambito alimentare. L’idea è stata sorprendente perché i due sono riusciti a creare la prima gelatina non di origine animale: di solito, infatti, essa viene ottenuta dalla lavorazione di ossa, tessuti e pelle di mucche e maiali.
L’apporto delle startup alla biotecnologia
Fino a pochi anni fa simili applicazioni biotecnologiche erano accessibili solo alle grandi aziende, perché i costi erano proibitivi. Nel giro di poco, però, i costi per l’accesso a specifiche tecnologie – tra cui il sequenziamento del DNA- sono crollati e anche quest’ambito dell’industrializzazione è diventato accessibile a startup ed aziende che non possono contare su capitali di un certo tipo. L’esperienza di Ouzounov e Lorestani, che hanno successivamente fondato la startup Geltor, non è rimasta isolata; infatti, dall’incubatore Indiebio si sono originate startup innovative come Clara Foods e Perfect Day, che utilizzano lo stesso metodo per produrre albumi e proteine del latte, senza partire da composti di origine animale. Queste realtà sono accomunate dall’utilizzo di materiale organico nel proprio processo di produzione, alla fine del quale si ottiene però un composto acellulare.
Microrganismi per produrre biomolecole. Il lavoro della Bicocca spiegato da Massimo Labra
“L’uso dei microrganismi per produrre biomolecole attive è uno dei trend del momento”, spiega Massimo Labra, Professore associato di botanica generale all’Università Bicocca di Milano.
“Nel nuovo contesto di produzione, la genomica ci ha permesso di conoscere le vie metaboliche che stanno alla base della produzione di molecole bioattive. Prima, ad esempio, sapevamo che una data specie vegetale conteneva certe sostanze e si procedeva all’estrazione. Oggi, sappiamo anche come la pianta sintetizza una data sostanza/molecola e questo ci permette di agire in modo mirato: si possono evitare i costi – spesso alti- per la coltivazione di un certo numero di piante, possiamo invece selezionare ciò che ci serve e utilizzarlo ai nostri scopi. Organismi semplici, come batteri o microalghe, hanno bisogno di poco per crescere: in questo modo vengono abbattuti i costi di produzione, che risultano molto inferiori rispetto a quelli per la coltivazione di una specie vegetale”, continua Labra.
Il metabolismo di questi microorganismi è molto semplice e, in fase di estrazione della molecola selezionata, non si corre quindi il pericolo di estrarre anche sostanze tossiche o pericolose. “Possono essere utilizzati come piccole fabbriche, perché è semplice operare un’alta selettività a costi irrisori. All’interno di questi microrganismi si possono trasferire interi gruppi di geni e avviare processi di produzione di varie tipologie di sostanze, dalle proteine agli omega 3”, spiega Labra. Questo risultato si può ottenere in due modi: attraverso microrganismi geneticamente modificati, o cercando nella biodiversità esistente microrganismi che siano in grado di sfruttare una sostanza per la produzione di una risorsa ritenuta importante. Può poi succedere che particolari microrganismi siano in grado di produrre sostanze di elevato valore, partendo dalla trasformazione di molecole tossiche o di scarto.
Il progetto Mysushi
“Attualmente, stiamo conducendo un progetto in cui diamo del glicerolo grezzo –ottenuto dalla produzione di impianti di biodiesel- in pasto a lieviti e microalghe, che sono in grado di metabolizzare questa sostanza e trasformarla in Omega3. Questi acidi grassi potranno essere utilizzati in ambito alimentare, farmaceutico oppure – come nel nostro caso- per la produzione di farine da utilizzare negli allevamenti di acquacoltura, siti in cui le specie ittiche hanno un livello più basso di Omega3 rispetto a quelle che vivono nel proprio habitat naturale”, osserva Labra.
Il progetto Mysushi, condotto dall’Università Bicocca con il supporto dell’Insubria di Varese, potrebbe influenzare positivamente il mercato ittico: secondo la Fao, infatti, nel 2025 il consumo di pesce procapite salirà a 21,8 Kg l’anno. Si rende quindi necessaria l’implementazione e il miglioramento degli attuali impianti di acquacoltura.
Attualmente, però, l’utilizzo di questi microrganismi ha alcuni limiti: “Spesso, questi processi funzionano molto bene in laboratorio, ma non sono scalabili da un punto di vista industriale. Standardizzare le produzioni di questo tipo non è semplice e attualmente in Italia non ci sono grossi investimenti in questo senso. Bisognerebbe investire in bireattori, ma molte aziende hanno paura di cambiare. In Italia sono attivi diversi progetti per facilitare il passaggio dalla scala di laboratorio a quella industriale, ma sono casi ancora isolati. Servirebbero più piattaforme di trasferimento, che garantissero all’azienda un rendimento sicuro anche su scale di produzione massive”, conclude Labra.