Da Prideful Sloth un mix di generi videoludici in un unico titolo
Si fa presto a dire: ispirarsi ad Animal Crossing. Di recente abbiamo intervistato una software house italiana che ha scelto di declinare a modo suo il mondo placido e colorato del capolavoro Nintendo. Ma mica è una colpa: per iniziare bisogna copiare dai migliori e poi, nel cammino, si plasma il proprio stile. A primo impatto Grow: Song of The Evertree altro non è che un riadattamento di quanto milioni di giocatori hanno sperimentato sull’isola di Tom Nook, craftando e raccogliendo legna e risorse per costruire un paradiso in terra in cui accogliere amici. In realtà il videogioco della software house australiana Prideful Sloth prende il via da un modello ben chiaro, per inserire nell’alambicco altri elementi ed essenze. Il risultato è un pozione colorata, talvolta brillante, a cui possiamo perdonare una certa ripetitività nel gameplay.
Nel realizzare Grow: Song of The Evertree gli sviluppatori hanno preferito basarsi su una trama standard, dove bene e male si scontrano, con quest’ultimo ad un passo dal prendere il sopravvento sul mondo. La favola prevede il solito eroe, l’ultima speranza rimasta, che mano a mano deve riportare la pace. Non ci sono combattimenti nel videogioco: questo perché, assecondando lo spirito dei tempi che imporrebbe ad ognuno tanti piccoli gesti quotidiani per cambiare le cose, ebbene le cose si cambiano soltanto giorno dopo giorno, seminando il bene e osservando gli effetti. Senza fretta.
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In Grow: Song of The Evertree si respira lo sforzo di trasmettere cultura ed educazione, a cominciare dalle pratiche basilari del gameplay. Nelle non poche sessioni di tutorial del videogioco (che vi impegneranno un paio di ore, ebbene sì), il nostro personaggio – una alchimista, che potremo editare a inizio gioco – dovrà impegnarsi per tanto tempo, concedendosi anche doverosi riposi notturni, per far arretrare il male che ha avvelenato e spopolato l’Albero Eterno. A questo punto potrebbe anche venirvi in mente il mondo di Avatar, con quel rapporto profondo e affascinante che gli esseri viventi hanno con la madre terra.
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Quando parlavamo di Grow: Song of The Evertree come di un’alchimia, ci riferivamo al fatto che il titolo indie è un mix suggestivo di generi: Animal Crossing da una parte e city builder dall’altra. Il nostro compito è riportare la bellezza con gli attrezzi del mestiere (dall’annaffiatoio in su), facendo in modo che sui terreni strappati all’Avvizzimento – il nome del terribile male che ammorba il mondo – ritorni la vita e sorgano edifici e case da destinare ai nuovi abitanti. Di loro dovremo occuparci, per far sì che siano felici, con una casa e un lavoro. Il morale della cittadinanza – buono o pessimo, dipende da noi – ci verrà restituito sotto forma di monete all’inizio di ogni giornata. Da spendere per riportare in luce i sette distretti dell’Albero Eterno.
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Un altro elemento fondante del videogioco sono le essenze, da coltivare e realizzare grazie alla cura del nostro giardino. Riappropriandoci della terra sapremo scacciare il male. Grow: Song of The Evertree non mette fretta e, non essendoci una componente di combattimento, mette da parte lo scontro muscolare per accompagnare il gamer in un viaggio di pazienza. Il videogioco è anche, se volete, un omaggio videoludico a quella Generazione Z che chiede maggior rispetto nei confronti dell’ambiente: il mondo si salva tutti insieme, oppure le cose potrebbero andare sempre peggio. In Grow: Song of The Evertree questo è chiaro come l’acqua di sorgente.