Dopo l’assalto al Campidoglio statunitense in tanti tornano a interrogarsi sulle responsabilità di Twitter & co. Sono molte, certo, ma quella fondamentale affonda le radici nel loro granitico e insostituibile modello di business
Per tradurlo in italiano dovremmo usare un termine orribile: “depiattaformizzare”. Meglio: cacciare dalle piattaforme social. Chi? Donald Trump, ovviamente, che in questi anni attraverso Twitter e tutte le possibili filiazioni digitali più o meno mainstream gestite da gruppi di estremisti e fanatici, Proud Boys e Boogaloo o chi volete voi, seguaci delle più ridicole macchinazioni e fisiognomicamente buoni per un film a sei mani fra Wes Anderson e i fratelli Coen, ha costruito e alimentato una realtà parallela a sua immagine e somiglianza. Se lo chiede Casey Newton su The Verge, che anzi tuona: “Ban Trump now” in un lungo articolo nel quale spiega che “se proprio dobbiamo trovare un lato positivo negli eventi orribili di oggi per la Silicon Valley, dovrebbe essere il fatto che le persone che gestiscono i social dispongano ora di una nuova chiarezza morale sul loro ruolo negli eventi mondiali. Far fuori dalle piattaforme è un passo da non prendere alla leggera. Ma milioni di persone sono state cacciate per molto meno di quello che ha fatto Trump”.
In pratica Newton certifica il fallimento assoluto dei social per come si sono fatti strumentalizzare rispondendo tardi e male, a suon di ridicole etichette, inutili disclaimer e arzigogoli di regole e condizioni d’uso, a chi ne ha spremuto fino all’osso ogni potenzialità, fino al punto da minare al midollo la democrazia. Come l’ha sfruttata in parallelo su altri canali di comunicazione trasformandoli in (consapevoli o meno) veicoli di propaganda e innescando un irresistibile effetto domino di cui la polarizzazione non è l’effetto ma la causa. Per cui la soluzione, pura e semplice, è disarcionare questa gente e proibire loro l’uso dei social.
L’ordine di Trump, radici profonde
Bisogna stare attenti: la crisi del sistema democratico statunitense non sta certo nelle tecnologie. Sta scritta semmai nella sua stessa storia, a partire dal sistema elettorale che deforma in modo delirante la volontà popolare col filtro dei “grandi elettori”. Insomma l’assalto a Capitol Hill, roba da titolo di un film distopico di serie B, non arriva solo dalla disinformazione sistematica spacciata sui social, anzi da quella realtà parallela costruita a uso e consumo delle truppe armate in felpa, cappellini da baseball, fucili semiautomatici, corna e pelle di bufalo. Non scherziamo, non si buttano sotto il tappeto gli squilibri istituzionali ed elettorali, prassi e garanzie mai codificate, il razzismo, la schiavitù e la segregazione, il culto della morte, un sistema giudiziario sommario, il business dell’incarcerazione, le gigantesche disparità sociali. Quello che è successo a Washington D.C. è stato alimentato ed esplicitamente ordinato da Trump ed è cresciuto a partire dalle primarie del 2016 ma le sue radici vanno ben al di là di questo quadriennio da incubo.
Le domande che facciamo ai social, da troppo tempo
Detto questo, e tornando ai social, la questione è una: l’opportunità o meno che Trump venga messo al bando da queste piattaforme potrebbe forse darci sollievo, nell’immediato, ma non fornisce uno straccio di risposta alle domande che ci accompagnano, ormai quasi noiosamente, da anni. Sono sempre le stesse, le conosciamo a memoria: in che misura i social sono la concausa di quanto è avvenuto? Hanno risolto – evidentemente no – il problema delle regole interne? Chi e come decide quali contenuti e messaggi lasciar circolare? Chi controlla? Ci sta bene che a farlo sia un mix di algoritmi e operatori sottopagati da qualche parte nel mondo? L’autoregolamentazione è sufficiente e le leggi del Novecento bastano a vivere dignitosamente quegli ecosistemi digitali? E ancora: i social sono editori o piattaforme, hanno responsabilità su quello che si dice o solo sul come lo si dice? E se da una parte c’è il Far West, dall’altra la censura è sempre in agguato.
E le risposte, che non ci sono
Sono domande a cui negli anni sono state date risposte quasi grottesche. Fatte di mille cavilli, convegni e audizioni (“Senator, we run ads!”), di rimozioni forzate, di continui aggiornamenti dei regolamenti che dessero una mezza impalcatura teorica a ciò che fino a cinque minuti prima sarebbe apparso come una scelta arbitraria. Tutti arnesi letteralmente inservibili rispetto alle gigantesche potenzialità di quelle piattaforme, che nel frattempo venivano spolpate in ogni aspetto e a ogni livello, in contesti e con finalità diverse.
Il mostro sono i social
Insomma, i social non hanno (solo) creato il mostro: sono loro, il mostro. E se far fuori Trump è evidentemente sacrosanto, poco cambierà se le condizioni di fondo rimarranno graniticamente uguali a sé stesse. Cioè di piattaforme dove il dissenso è difficile da esprimere, o meglio è un puro elemento di engagement e non un diritto facile da esercitare, costruite intorno alla dittatura del like e appunto sul coinvolgimento degli utenti sfruttato per profilarli e veicolare loro pubblicità su misura. Colossi privati, e integrati, che hanno costruito un recinto dorato dove le macchine da opinione più sofisticate e implacabili accompagnano ciascuno al proprio angolo, cullandolo con ciò che più risponde alle sue propensioni e soprattutto ai suoi pregiudizi. Dove il conflitto non è una conseguenza ma la pietra angolare dei rapporti reciproci.
Un modello di business irriformabile
Twitter, Facebook e le altre piattaforme non sono la causa specifica del problema, cioè di quello che è successo non solo al Campidoglio americano ma in mille altre occasioni precedenti. Bufale, istigazione alla violenza, organizzazione, logistica, tutti pezzi di una mobilitazione che pure ha trovato su alternative complottiste alla Parler ancora più spazio: tutto questo è evidentemente avvenuto, certo, mentre i sistemi rincorrevano affannosamente i post con le loro etichette, oscuravano questo o quel contenuto e i fact checker perdevano il loro tempo a sbugiardare lo sbugiardabile agli occhi di chi avrebbe comunque e sempre creduto alla prima versione, gli ingegneri organizzavano purghe periodiche di pagine e profili che violavano oltre ogni limite i termini d’uso e molto altro di inevitabile. Eppure il cuore della questione si trova un passo prima: i social network sono il problema, perché hanno pervicacemente dimostrato nel tempo di essere sostanzialmente irriformabili. Per un Trump a cui giustamente sottrarremo quell’audience, altri dieci, cento o mille Trump – piccoli e grandi, magari in qualche bolla lontana che ci sembra innocua – stanno già affilando le loro oscenità. Piegando a proprio favore un modello di business di cui fanno tragicamente il gioco e a cui quei colossi, a prescindere da ogni sforzo intorno a regole, “corti d’appello” e infinite chiacchiere intorno alla loro reale natura, non possono rinunciare. A meno di non cambiare pelle.