Edizione particolare del World Happines Report, dedicata all’impatto della pandemia sulle vite delle persone: ci difende il fatto che è una sfida globale ma, al netto dei decessi, salute mentale e lavoro sono le sfide principali per il futuro. Le prime 20 posizioni
Il World Happiness Report di quest’anno, presentato proprio in occasione della Giornata internazionale della felicità, vede di nuovo la Finlandia in testa alla classifica, secondo i dati raccolti dal Gallup World Poll. Una leadership legata principalmente alla fiducia della popolazione nei confronti della propria comunità, elemento che in questi mesi di pandemia ha contribuito a proteggere il benessere delle persone. L’Italia sale dal 28esimo al 25esimo posto, nonostante l’anno terribile e pieno di lutti che abbiamo trascorso. A differenza di altri Paesi, secondo i ricercatori del World Happiness Report la risposta del nostro paese al virus è stata insoddisfacente, principalmente per una scarsa adesione della popolazione alle misure richieste e i pochi controlli, nonostante le misure messe in atto nei primi mesi della pandemia fossero stringenti.
Sono questi alcuni risultati del rapporto, di cui illycaffè e la Fondazione Ernesto Illy sono partner per il quinto anno consecutivo, e che in un anno particolare non poteva che approfondire gli effetti di Covid-19 su diverse dimensioni della vita e delle attività umane e su come i diversi paesi hanno cercato di rispondere. Resilienza è una parola abusata che non piace più a molti ma, con buona pace degli annoiati, molte nazioni hanno dimostrato di disporne in quantità maggiori e di essere in grado di fornire strategie più virtuose per convivere con la pandemia.
Le altre posizioni in classifica
Al secondo posto segue l’Islanda davanti a Danimarca, Svizzera e Paesi bassi. Sesta è la Svezia, settima la Germania, ottava la Norvegia, nona la Nuova Zelanda e al decimo posto l’Austria. Si prosegue, dalla decima piazza, con Israele, Australia, Irlanda, Stati Uniti, Canada, Repubblica Ceca, Belgio, Regno Unito, Taiwan e Francia. A scorrere, l’Italia al 25esimo posto.
“Vivere a lungo è ugualmente importante che vivere bene. In termini di numero di anni di vita ‘felici’ a persona, il mondo ha fatto grandi progressi negli ultimi decenni, che persino il Covid-19 non è riuscito a cancellare del tutto” commenta Richard Layard, co-direttore del Well-Being Programme del Centre for Economic Performance della London School of Economics.
Il prezzo più alto pagato alla pandemia: due milioni di morti
L’effetto peggiore di Sars-CoV-2 è ovviamente il suo prezzo in termini di vite umane: due milioni di morti nel 2020, una crescita annuale che sfiora il 4% a livello mondiale. Diminuisce quindi il benessere sociale. Per quanto riguarda le persone, c’è stato un aumento delle malattie gravi, una maggiore insicurezza economica e, per molti, stress e peggioramento della salute mentale derivanti dai lockdown. Sorprendentemente, però, in media non è stato percepito un declino del benessere in base alle valutazioni delle persone sull’impatto della pandemia sulla loro vita (Gallup World Poll – Eurobarometer Survey).
Il cambiamento tra 2017-2019 e 2020 varia considerevolmente tra i diversi paesi. Il benessere è sceso in alcuni – come Canada, Hong Kong, Brasile, Turchia, UK, Messico, Filippine – anche se nella maggior parte dei paesi la percentuale è 0.5 o meno, mentre è cresciuto in altri.
Covid-19 come minaccia comune
“Siamo stati sorpresi di vedere che in media non c’è stato un declino nel benessere generale, misurato sulla base della valutazione soggettiva delle persone e delle proprie vite – spiega John Helliwell, professore dell’Università British Columbia – una possibile spiegazione è che la gente vede il Covid-19 come una minaccia comune ed esterna, che tocca chiunque e che ha generato un maggior senso di solidarietà ed empatia”.
“È stato un anno molto duro ma i dati mostrano significativi segni di resilienza, come la volontà di connessione sociale e la valutazione delle proprie vite” sostiene Lara Aknin, docente all’università canadese Simon Fraser.
Cosa influenza il tasso di mortalità
Un focus è stato dedicato al tasso di mortalità nel mondo. Sono sei i fattori (tre tecnici e tre culturali) che possono spiegare la differenza del tasso di mortalità nei vari Paesi. Anzitutto i fattori tecnici: l’età media della popolazione, la natura insulare del paese, la vicinanza di un determinato paese ad altri paesi con un alto indice di contagio. Poi quelli culturali, su tutti la fiducia nelle istituzioni pubbliche. Più alta è la fiducia, più facile è per il governo insistere su un comportamento socialmente responsabile dell’individuo. Per esempio, in Brasile il tasso di mortalità è stato di 93 morti ogni 100mila, più alto di Singapore: la differenza (per quasi il 50%) può essere spiegata dalla alta fiducia nelle istituzioni. Poi avere un primo ministro donna. Le donne, dice lo studio, sono generalmente più sensibili e attente ai problemi legati al benessere. L’esperienza con precedenti pandemie come Sars: i paesi dell’Est asiatico hanno imparato una lezione che il resto del mondo ha faticato ad assorbire.
Le misure che costano meno ma funzionano di più
“La diffusione del virus dipende dal Reproduction Number R (indice di contagio RT in Italia), che misura il numero medio di persone che ogni persona positiva potrebbe infettare. Prendendo in considerazione i valori giornalieri di 25 Paesi in America, Europa Occidentale e la regione dell’Asia-Pacifica, è possibile identificare i Key Factors che hanno influenzato R” si legge ancora. Il fattore più importante è stata l’intensità dell’igiene personale e il rispetto delle misure: distanziamento sociale, lavaggio frequente delle mani, uso di mascherine. Un altro fattore importante è stata l’implementazione del “test & trace”, testare e tracciare, che idealmente impone l’isolamento-quarantena di tutti i contatti e traccia i contatti di tutti i positivi (sia quelli che possono aver infettato, sia quelli che sono stati infettati). I divieti di viaggiare – travel ban – sia internazionali che nazionali hanno chiuso il cerchio.
Le misure che costano di più
Al contrario, esiste anche un range di altre misure che portano un costo maggiore sia economico che sociale. In Italia le conosciamo bene: la chiusura delle scuole o i lockdown, più o meno restrittivi. “Se si è ben organizzati e si ha il supporto della comunità, è possibile sopprimere il virus senza eccessivi danni all’economia. Fino al 21 dicembre 2020, i Paesi dell’Asia Pacifica compresi nello studio hanno avuto sia meno morti che migliore crescita economica rispetto ai Paesi del Nord America ed Europa” aggiunge il documento.
I costi per la salute mentale
Una parte del rapporto analizza invece i costi della pandemia per la salute mentale, considerato ormai uno dei fronti più drammatici della pandemia che dei conseguenti lockdown. Le stime variano a seconda delle misure messe in atto e dei Paesi presi in considerazione ma i risultati sono sorprendentemente simili. Nel Regno Unito, a maggio 2020, una misura generale della salute mentale era del 7,7% più bassa rispetto a quanto stimato in assenza della pandemia, e il numero dei problemi di salute mentale dichiarati erano più alti del 47%. Il declino in salute mentale è stato più alto per determinate categorie, come donne, giovani, poveri. Sono quindi aumentate le diseguaglianze già esistenti, la forchetta si è ampliata.
Tuttavia, dopo il deciso declino iniziale, nonostante un graduale miglioramento della salute mentale, il livello di benessere non è tornato ai livelli pre-pandemia. Una parte significativa delle persone (22% in UK per esempio) ha indicato un livello di salute mentale significativamente e costantemente più basso di prima di Covid-19.
Sale la domanda di assistenza psicologica
Nello stesso tempo sono aumentati i bisogni di assistenza sanitaria mentale ma sono diminuiti i servizi in molti paesi, perché si è concentrati su altro: c’è, insomma, una domanda non soddisfatta. “Dal lato positivo, la pandemia ha fatto luce sui problemi legati alla salute mentale come mai prima. L’aumentata consapevolezza pubblica fa ben sperare per il futuro della ricerca e in migliori servizi di cui si sente urgentemente bisogno”, immagina il rapporto.
Le relazioni
La percezione di mancanza di relazioni e contatto ha evidentemente diminuito la felicità, così come il senso di solitudine è cresciuto e il supporto sociale ridotto, si legge poi in un altro capitolo. Ci sono alcune caratteristiche che hanno aiutato le persone a superare questo momento di isolamento: gratitudine, grinta, relazioni precedenti, volontariato, esercizio fisico, avere un animale domestico. Anche le attività giornaliere, cioè la routine, hanno avuto un ruolo fondamentale. Allo stesso modo, molti sono i fattori negativi che hanno indebolito il senso di protezione delle persone: precedenti problemi di salute mentale, senso di incertezza, mancanza di connessioni digitali adeguate. Chiaramente, la connessione digitale è fondamentale e molte persone sono state aiutate da programmi digitali di salute mentale.
Lavoro e disoccupazione
Capitolo lavoro e disoccupazione. Si stima che la crescita economica globale si sia ridotta del 5% nel 2020, rappresentando così la più grande crisi economica di tutta una generazione. In molti Paesi le opportunità di lavoro a fine 2020 sono rimaste al 20% sotto la normale soglia e le percentuali dell’inattività del mercato del lavoro sono cresciute almeno quanto la disoccupazione. I paesi con una situazione del mercato del lavoro già precaria ne hanno risentito in maniera decisiva. I giovani, i lavoratori con una paga bassa e quelli con poche abilità hanno avuto più probabilità di perdere ore lavorative o perdere il lavoro.
Essere senza lavoro ha ovviamente avuto un impatto negativo sul benessere. La disoccupazione è associata al 12% della diminuzione della soddisfazione di vita e al 9% dell’aumento di influenza negativa. I Paesi che hanno introdotto sostanziali politiche di protezione al mercato del lavoro per i lavoratori hanno visto in linea generale un declino meno significativo del benessere.
Il supporto del management e una flessibilità lavorativa sono stati driver ancora più importanti durante la pandemia. Tuttavia, l’importanza di altri driver (fiducia, supporto, inclusività, appartenenza) non è cambiata, suggerendo quindi che i motivi che rendono il posto di lavoro motivo di benessere normalmente, sono determinanti anche in tempi duri come il 2020.
Impatti destinati a durare
“Gli impatti della pandemia sul mondo del lavoro sono destinati a durare – conclude il report – i dati delle passate recessioni e le prime ricerche sulla pandemia da Covid-19 suggeriscono che i giovani che diventano maggiorenni nelle peggiori condizioni macroeconomiche del paese sono più propensi ad appoggiarsi finanziariamente agli adulti. Si stima che il passaggio al lavoro da remoto sia destinato a durare a lungo anche dopo che la crisi sarà passata. Questo comporterà un mondo di futuri lavoratori con più flessibilità e autonomia sulle loro vite lavorative, ma anche il rischio di indebolire il capitale sociale al lavoro”.