Merito di una partnership pubblico-privata che da oltre 30 anni punta ad eradicare il virus a livello mondiale, di una campagna lanciata negli anni ’90 da Nelson Mandela. Ma anche dei singoli medici, che operano sul territorio e degli educatori sanitari che, soprattutto in Africa, svolgono un lavoro di sensibilizzazione delle famiglie, perché portino i bambini ai centri di salute
Sono serviti 32 anni, una partnership pubblico-privata – la Global Polio Eradication Initiative, GPEI – guidata dai governi nazionali e sostenuta da sei partner principali (l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), il Rotary International, i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), l’UNICEF, la Bill e Melinda Gates Foundation e Gavi, la Vaccine Alliance), finanziata da un’ampia gamma di donatori pubblici e privati (tra il 1988 e il 2018 sono stati forniti oltre 16 miliardi di dollari, da oltre 100 donatori del settore pubblico e privato) e la collaborazione di medici ed esperti sul territorio, ma alla fine anche l’Africa è stata dichiarata libera dalla polio selvaggia (da “wild”, cioè il poliovirus presenta in natura). Lo ha certificato l’African Regional Certification Commission for Polio eradication (ARCC) dopo essere trascorsi quattro anni senza un caso (l’ultimo è stato rilevato nel 2016 in Nigeria). Un passo avanti verso l’eradicazione mondiale del virus selvaggio che causa la poliomielite, che oggi persiste in solo due paesi: Pakistan e Afghanistan.
crediti: Baudouin Mouanda
Un lungo lavoro
La decisione dell’ARCC arriva dopo un processo decennale, basato su documentazione e analisi della sorveglianza della polio, dell’immunizzazione e della capacità dei laboratori dei 47 Stati membri della regione, che ha incluso visite di verifica sul campo. Un percorso che si è intensificato quando nel 1996, i capi di Stato africani si sono impegnati a eradicare la poliomielite durante la trentaduesima sessione ordinaria dell’Organizzazione per l’unità africana a Yaoundé, in Camerun. A quel tempo, quando Nelson Mandela lanciò, con il sostegno del Rotary International, la campagna “Kick Polio Out of Africa”, la poliomielite paralizzava circa 75.000 bambini all’anno nel continente africano. Oggi grazie a questo impegno collettivo, le nazioni africane hanno immunizzato centinaia di milioni di bambini con vaccini antipolio. Hanno rafforzato le reti di sorveglianza per rilevare eventuali tracce persistenti del virus. Hanno implementato strategie per immunizzare i bambini difficili da raggiungere. Tanto che i casi di polio si sono ridotti del 99,9% dal 1988.
Una questione di sinergia
“La cosa molto positiva che va celebrata di questo annuncio è che è stato un evento di portata enorme, che non è avvenuto per caso ma è stato fortemente voluto” commenta Manuela Valenti, responsabile della divisione pediatrica di Emergency. “È un progetto nato dalla collaborazione tra OMS, UNICEF e alcune fondazioni private che hanno contributo, largamente, economicamente alla campagna mondiale contro il poliovirus. Senza queste collaborazioni e sinergie non saremmo arrivati a questo risultato. Ma bisogna ringraziare ogni singolo medico e pediatra che in tutto il mondo si è sempre fatto carico di verificare il libretto vaccinale dei bambini e che tutte le dosi fossero fatte nella maniera corretta. In particolare in Africa il merito va anche a tutti gli educatori sanitari che svolgono un lavoro di sensibilizzazione delle famiglie, perché portino i bambini ai centri di salute”.
crediti: Global Polio Eradication Initiative GPEI
Come funziona la vaccinazione in Africa
In Africa infatti la vaccinazione avviene su base volontaria e gratuita. L’UNICEF distribuisce i vaccini ai governi che a lor volta li recapitano ai centri idonei per la somministrazione. Non sempre però la distribuzione dei centri sanitari nei Paesi africani (e in generale nei Paesi a basse risorse) è capillare, come racconta Valenti. Motivo per cui, a volte vengono utilizzati anche piccoli dispensari dei centri vaccinali, edifici o scuole all’interno dei villaggi o si fanno campagne porta a porta. “Nella mia esperienza personale mi è capitato spesso di incontrare mamme, in Africa e soprattutto Afghanistan, che mi chiedessero loro stesse di vaccinare i loro bambini. Perché avevano perso qualche altro figlio, sorelle o vicini per patologie prevenibili con un vaccino” continua Valenti, ricordando come anche Emergency, al pari di molte altre organizzazioni, abbia contribuito al progetto. “Perché in tutti i nostri ospedali dove facciamo pediatria dedichiamo uno spazio alle vaccinazioni”.
Il poliovirus derivato dal vaccino
Nonostante l’enorme traguardo raggiunto resta ancora molto da fare, ancora, anche in Africa. Una volta raggiunta un’elevata copertura vaccinale tra i bambini, grazie alla somministrazione in tre dosi del vaccino antipolio orale (OPV), questo livello di copertura deve essere mantenuto, anche dopo che i paesi sono stati dichiarati indenni dalla poliomielite. Perché il virus può essere reintrodotto dai viaggi transfrontalieri e dall’esitazione intorno al vaccino.
Inoltre in 16 paesi africani (tra cui, secondo l’OMS: Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana e Angola) è ancora presente una forma di poliovirus derivato dal vaccino di tipo 2 (cVDPV2). In aree con una bassa immunità, tali ceppi continuano a rappresentare una minaccia e il rischio è amplificato dalle interruzioni della vaccinazione a causa del Covid-19, che hanno reso le comunità più vulnerabili alle epidemie di cVDPV2. “Nei vaccini attualmente impiegati, sono contenuti tutti e tre i ceppi del virus selvaggio, che quindi è stato neutralizzato” precisa Valenti. “Può capitare però, ed è normale nella storia naturale dei virus e delle vaccinazioni, che nascano piccoli focolai in alcuni paesi, che vengono dai virus attenutati contenuti nel vaccino. Si tratta di forme più leggere di polio, ma che devono essere ugualmente debellate”.
crediti: Global Polio Eradication Initiative GPEI
I polmoni di acciaio
Valenti infatti sottolinea come la patologia causata dal poliovirus sia multiforme. Il virus nella stragrande maggioranza delle persone provoca forme lievi, con sintomi semi influenzali o di gastro enterite. Ma in una percentuale ridotta della popolazione, più di frequente nei bambini (colpisce principalmente i bambini sotto i cinque anni) può raggiungere il sistema nervoso, causando paralisi degli arti e poi anche dei muscoli respiratori, portando alla morte. O a forme molto invalidanti di alterazioni ossee con zoppie ecc. “Adesso queste forme dovrebbero appartenere alla storia della medicina” afferma Valenti.
Storia testimoniata dalle immagini dei polmoni di acciaio, enormi macchinari costruiti a partire dagli anni ’30 del Novecento, che permettevano alle persone colpite dalle forme più gravi di polio, di continuare a vivere. A patto però di trascorrere la propria vita sdraiati al loro interno. Una soluzione tremenda, ma che per lo meno consentiva la sopravvivenza. Finché nel 1952 Jonas Salk inventò il primo vaccino anti-polio. Si trattava di un vaccino inattivato, che Salk decise di non brevettare per incoraggiarne la diffusione. Nel 1963 arrivò anche il vaccino orale, vivo attenuato, di Albert Sabin, che grazie a vaccinazioni di massa portò a una diminuzione del numero di casi di poliomielite. Oggi non esiste una cura ma il vaccino antipolio protegge i bambini a vita. In Italia, in cui il virus è stato combattuto sin dagli anni ’60 con la vaccinazione obbligatoria, gli ultimi casi autoctoni si sono avuti nell’82, ma l’Italia è stato dichiarata polio free solo nel 2002. Indice che si tratta di processi che chiedono molto tempo.
crediti: Conrad Poirier
I millennium goals
“L’eradicazione della polio fa parte dei Millennium Development Goals, i traguardi che l’OMS si è posta nel 2000 per il nuovo millennio” riferisce Valenti. “Oltre che per contrastare la polio, sono stati fatti tanti passi avanti anche per l’HIV, la tubercolosi e la malaria anche se resta la prima causa di morte in alcune zona in Africa. Al momento, inoltre, proprio la malaria sta causando problemi in alcune zone, perché è diventata resistente ai farmaci classici. Altra grossa emergenza in tutto il mondo, anche nei paesi ricchi, è l’antibiotico resistenza. Anche se la peggiore patologia che affligge i paesi in via di sviluppo è mal nutrizione”.
Valenti non sa quale sarà il prossimo obiettivo che si riuscirà a raggiungere nei Paesi più poveri, ma spera di vederne altri durante il suo lavoro. I problemi da superare però sono tanti. A iniziare dalla guerra, per cui le difficoltà sanitarie sono tipicamente uno degli effetti collaterali indiretti che impediscono proprio fisicamente, alle persone, di accedere ai presidi sanitari. O ancora i problemi di infrastrutture, e di copertura di corrente elettrica, necessaria per lo stoccaggio e la distribuzione dei vaccini. Infine l’health promotion, l’educazione sanitaria. “Per tutte queste difficolta il traguardo raggiunto è eccezionale e importante” ribadisce.
Passi avanti
I passi avanti però sono stati tanti, soprattutto nell’ottica della cooperazione internazionale, che secondo la responsabile di Emergency sta molto migliorando, coinvolgendo sempre di più i governi e attori nazionali. “Ci si sta orientando sempre più, nel formare anche i medici in Africa” aggiunge. “Molti dei nostri ospedali per esempio oggi sono riconosciuti come scuola di specialità post laurea di alcune specialità. In Afghanistan abbiamo una scuola di specialità per chirurgia, pediatria, ginecologia e a Khartum, in Sudan, a rotazione una specializzazione in cardio chirurga e in anestesia. Questo è il sistema per far crescere i Paesi. Perché anche con le sporadiche borse di studio che ogni tanto vengono proposte dall’Europa, si insegnano procedure che non sempre i medici sono in grado di riapplicare nei loro paesi. O magari non tornano proprio”.
crediti: Global Polio Eradication Initiative GPEI
Una marcia in più
Il traguardo di eradicazione della polio selvaggia in Africa ha anche una certa valenza, considerando che gli ultimi mesi, con la pandemia di Covid-19 in corso, non sono stati facili. Eppure questo non sembra aver ostacolato i piani e i programmi in corso in Africa. Anzi, chi lavora sul territorio, memore della precedente esperienza con ebola, non solo è riuscito a portare avanti i progetti in Africa ma ha anche portato la sua esperienza nei Paesi più ricchi.
“Eravamo in Sierra Leone, nel nostro ospedale dove facevamo chirurgia generale, traumatologia e pediatria, quando tra il 2014-15 è scoppiata una delle peggiori epidemie di ebola” ricorda Valenti. “Ci è servito per esercitati e fortificarci. Da un alto infatti siamo riusciti a mandare avanti l’ospedale senza fare entrare il virus. Dall’altra ne abbiamo aperto un altro, da 100 posti letto, per il trattamento dei pazienti con ebola”. Questa esperienza però è servita per dare una mano anche in Italia. “Abbiamo fornito consulenza sia sanitaria sia logistica – conclude Valenti – per l’attività dell’ospedale in fiera a Bergamo, i centri di accoglienza per senza fissa dimora a Milano, nelle RSA e per le scuole nella bergamasca. Quando capitano sciagure come queste, in Paesi che sono costretti a lottare abitualmente con problemi altrettanto gravi, è come se fossero già preparati: si rimboccano le maniche e affrontano anche la nuova sfida”.