In Francia ha coinvolto oltre 120mila clienti: l’Alveare è una piattaforma per vendere e comprare dagli agricoltori prodotti a chilometro zero. Ma anche per trasformare la logica dei vecchi Gas in un’impresa sociale. Grazie alla tecnologia
I gruppi d’acquisto trovano un’altra piattaforma per comprare, e gli agricoltori un’altra per vendere, i prodotti locali. L’Alveare che dice Sì!, con tanto di punto esclamativo, è un progetto sbocciato cinque anni fa in Francia che sbarca ora in Italia. Una delle prime uscite pubbliche, per così dire, è avvenuta a Fa’ la cosa giusta, la fiera degli stili di vita sostenibili andata in scena la scorsa settimana a Milano.
Dalla Francia con passione
L’idea, mutuata appunto dalla transalpina La Ruche qui di Oui!, è ambiziosa: costruire qualcosa di simile a un’impresa sociale. La piattaforma di vendita favorisce infatti gli scambi diretti fra agricoltori locali e comunità di consumatori che, una volta alla settimana, si ritrovano creando dei piccoli mercati temporanei a chilometro zero. Sono quelli che, nella grammatica del sistema, si chiamano “alveari”. In Francia questi gas 2.0 sono ormai oltre 650 mentre in Italia, dall’inizio dell’anno, ne è già spuntata una trentina.
Il traghettatore
In Italia l’ha portata Eugenio Sapora, ingegnere 35enne, cervello di ritorno (ha trascorso dieci anni a Parigi) che ha scelto di piazzare il quartier generale all’I3P, l’acceleratore e incubatore per startup del Politecnico di Torino, in particolare all’interno del programma Treatabit. Da startup innovativa, registrata lo scorso dicembre, la sponda è arrivare a definirsi nel giro di quattro anni un’impresa sociale a tutto tondo.
“Oggi tutti parlano di chilometro zero e di filiera corta e i benefici associati sono ben noti. Ma quando chiediamo ad amici, vicini e parenti dove fanno la spesa la risposta è sempre la stessa: al supermercato – spiega Sapora a The Food Makers – e questo perchè, anche se non mancano le iniziative, le barriere per accedere alla filiera corta sono effettivamente ancora alte: barriere economiche, logistiche, pratiche. L’Alveare che dice sì! vuole dare una risposta concreta all’abbattimento di questi ostacoli e potenziare la filiera corta, renderla virale e accessibile a tutti. In che modo? Mettendo al suo servizio tecnologia, socialità e sharing economy e dando cosi la possibilità a chiunque di aprire il proprio alveare”.
Come funziona
Il funzionamento è semplice. I produttori locali devono ovviamente iscriversi ad Alvearechedicesi.it e unirsi a uno di quegli alveari, proponendo in vendita i propri prodotti. Parliamo ovviamente del fresco, dalla frutta alla verdura passando per latticini e formaggi. I consumatori si registrano, scelgono sul sito cosa acquistare e finalizzano la transazione mentre il ritiro avviene appunto con cadenza settimanale. C’è anche un’ape regina, nel sistema: è il gestore dell’alveare, cioè la persona che ha preso l’impegno di tirare le fila e, anzi, di lanciare un singolo alveare. Motivando gli agricoltori ma anche pianificando qualcosa di più ampio e divertente, che dà al progetto il suo sapore da social network della vita reale: eventi, aperitivi, visite guidate nelle aziende agricole. L’altro obiettivo è appunto costruire un network di relazioni forte e collaborativo. Dare cioè ai gruppi d’acquisto solidali un seguito fuori dalle transazioni legate al cibo.
Lo scambio è diretto e i prezzi vengono fissati liberamente. C’è ovviamente una commissione del 16,7% che finisce in egual misura (8,35%) al gestore dell’alveare – a proposito, l’80% in Europa è donna ma ci sono anche soggetti collettivi come gruppi e associazioni – e alla stessa piattaforma, per consentirle l’organizzazione tecnica e commerciale.
Dove sbocciano gli alveari
Venditori e acquirenti possono ovviamente incontrarsi un po’ ovunque: basta un bar, un ristorante, un agriturismo – magari per rimanerci a pranzo – o gli spazi di qualche associazione che voglia collaborare. “In questo meccanismo, che mette al centro la comunità e la genuinità dei prodotti, è fondamentale il ruolo della tecnologia – raccontano dal quartier generale – la piattaforma è stata sviluppata lavorando a stretto contatto con gli utilizzatori, per modernizzare ed accelerare la filiera corta e promuovere un modello di commercio più equo”. Nessun obbligo, nessun abbonamento, nessun importo minimo d’acquisto: ogni membro è libero di decidere se acquistare o no.
I numeri
Sono cifre importanti. In Francia, dove il primo alveare si tenne vicino Tolosa, e Belgio si contavano nel 2014 637 alveari, oggi evidentemente cresciuti, per un totale di 4.558 produttori coinvolti e 112mila clienti. Una comunità reale e digitale di tutto rispetto che ovviamente sul mercato italiano deve crescere ma ha già portato a bordo oltre 170 agricoltori. Da un paio d’anni il progetto fa parte del Food Assembly, un movimento nato per creare nuovi metodi per trovare e vendere i prodotti locali grazie alle potenzialità di internet e dei social network.
Le reazioni
“L’Alveare mi regala il piacere di far scoprire a chi abita nel quartiere i buoni prodotti locali, creando una rottura con l’anonimato della Gdo. Anche i clienti del bar sono felici, sanno che qui si usano solo prodotti dell’Alveare, prodotti di qualità” racconta Francesco Russano, gestore di un alveare a Torino. “Mi piace L’Alveare che dice Sì! perché non è solo uno spazio commerciale e di distribuzione, ma anche e soprattutto una comunità locale dove ci si può incontrare, si può discutere, scambiare idee o aiutarsi, inoltre si può ritrovare il piacere di fare la spesa” commenta invece Valentina Cocchi, gestore de I buffoni di corte, sempre a Torino.