I sondaggi ci dicono che i cittadini sono sempre più preoccupati della situazione climatica, eppure ciò non corrisponde a un miglioramento del loro civismo, come mai?
I problemi ambientali, si sa, non sono solo tecnici e tecnologici. E’ sicuramente vero che lo sviluppo strutturale di sistemi in grado di ridurre sprechi, ottimizzare prestazioni e creare strumenti alternativi sostenibili è un processo necessario per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo ecologico e ambientale. E però, in un momento in cui l’energia da fonti rinnovabili può essere prodotta su grande scala a costi ragionevoli, in cui l’esistenza di materiali a basso impatto inquinante copre una vasta gamma di necessità produttive ed in cui i sistemi di riciclaggio permettono di ottenere un recupero di risorse sempre maggiore, ci troviamo a dover ammettere che dalla disponibilità di una soluzione alla sua adozione, il processo di transizione è tutto fuorché immediato. Peggio, a volte non si verifica affatto.
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Un aspetto che rende questo fenomeno ancora più sorprendente è che questo genere di comportamento non è il risultato di disinteresse nella materia o di avversione agli approcci eco-sostenibili. Anzi. L’apprensione riguardo legata agli effetti ambientali è in generale aumento, e una maggioranza indiscussa di persone ritiene la tematica cruciale: stando agli ultimi dati (settembre 2017) della Asahi Glass Foundation di Tokyo, che si occupa di tali studi dal 1992, il 95% degli intervistati (il campione non è però rappresentativo, trattandosi di persone selezionate in base a un livello di expertise) a livello globale dichiara di essere “estremamente preoccupato” o “abbastanza preoccupato” sul futuro dell’ambiente, e l’andamento è in crescita di anno in anno.
In Francia, secondo i dati dell’European Perceptions of Climate Change Project (EPCC), solo il 5% delle persone si dichiara non affatto preoccupato. Lo stesso studio rivela come una larga maggioranza delle persone in Francia, Norvegia, Germania e Regno Unito preferisca fonti di energia pulita e abbia un bassissimo gradimento per carbone e petrolio. Eppure, non di rado vediamo bidoni di immondizia riempiti indiscriminatamente di tutto, strade ingorgate e mezzi pubblici vuoti, prodotti e servizi ad alto impatto ambientale che riscontrano gran successo commerciale. Le soluzioni ci sono (e le persone lo sanno) ma spesso poco viene fatto al riguardo. La dicotomia tra un ideale immaginario ed il comportamento reale è marcata. Insomma, tra il dire e il fare c’è di mezzo non solo il mare, ma l’ecosistema di tutto il pianeta.
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Ma a cosa è dovuto questo fatto. Soprattutto, si può fare qualcosa al riguardo?
I processi cognitivi alla base delle decisioni individuali sono complessi, controintuitivi, a volte letteralmente strani. Incoerenza, azioni sproporzionate e irrazionalità sono all’ordine del giorno in diversi atteggiamenti umani. Fortunatamente però molte di queste peculiarità sono ben note e comprese. Non solo: questi tratti del comportamento sono ormai stati tradotti in nozioni, modelli, discipline dal carattere predittivo efficace e, spingendoci ancora più in là, sono stati raggiunti livelli di interpolazione significativi. Siamo ormai in grado, pertanto, di indirizzare molti di questi comportamenti controproducenti e spesso autolesivi verso scelte più utili.
Tramite un insieme di strumenti, economisti comportamentali, neuroscienziati ed altri ” tecnici” del comportamento umano hanno già attuato misure volte ad accompagnare i processi decisionali verso opzioni ritenute più auspicabili. Dall’incremento del tasso di donazione di organi alla diminuzione delle prescrizioni mediche ingiustificate, negli ultimi decenni sono state sviluppate in vari Stati politiche, dette appunto ” comportamentali”, che hanno con successo spinto i cittadini a intraprendere scelte da cui hanno tratto beneficio sia essi medesimi sia la società in generale. I risultati ottenuti dalle politiche comportamentali in ambito ambientale non sono assenti.
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Consideriamo il problema degli sprechi alimentari, che la FAO stima causare 3.3 gigatonnellate annue di emissioni di CO2. Uno studio congiunto dell’Università olandese di Groningen e della statunitense Cornell University, ha identificato un comportamento interessante: i ricercatori hanno riscontrato che una differenza di pochi centimetri nel diametro dei piatti ad un buffet può portare le persone (con il piatto più grande) ad aumentare gli sprechi alimentari del 135%. Ecco come una semplice alterazione contestuale ha portato ad un cambiamento comportamentale enorme.
Peraltro, già al tramonto del secolo scorso, nella località di Schönau, in Germania, un intervento comportamentale mirato aveva permesso di raggiungere livelli di fornitura domestica di energia da fonti rinnovabili che era fino ad allora inimmaginabile. Ciò è stato possibile grazie ad un utilizzo attento dei default, ovvero delle opzioni base. Gli esseri umani tendono ad avere una componente di inerzia nel prendere alcune decisioni: senza ricorrere ad incentivi o limitare le opzioni, si può spingere una persona verso una scelta precisa semplicemente presentandola come ipotesi standard.
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Nonostante al consumatore venga richiesto semplicemente di mettere una “X” per optare per una fornitura di energia da fonti tradizionali ad un prezzo più basso, la stragrande maggioranza delle persone ha un’intrinseca (poiché ha basi biologiche) inclinazione a mantenere le cose così come vengono loro proposte. Nel caso di Schönau, l’ottimizzazione dell’architettura della scelta ha spinto il 94% dei cittadini ad adottare una fornitura di energia elettrica da fonti rinnovabili dopo le alterazioni di default. Per paragone, nel resto della Germania meno dell’1% dei cittadini dell’epoca acquistava energia verde.
Invito il lettore a riflettere su quanta campagna di sensibilizzazione e informazione si dovrebbe fare per ottenere un cambiamento equivalente (la mia impressione è che non sarebbe proprio possibile) o quante decine di milioni di euro in incentivi dovrebbero essere spesi per ottenere gli stessi effetti di un intervento che ha avuto costi praticamente nulli.
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In alcuni Paesi, gli esiti positivi delle politiche comportamentali hanno spinto i governi a integrare questo approccio sistematicamente nella pubblica amministrazione e negli assetti legislativi. Uno dei primi paladini dell’economia comportamentale nel pubblico è stato David Cameron, che istituì la Behavioural Insight Unit, un ente creato ad hoc per sostenere gli altri organi del governo. Lo stesso Cameron, dopo essere diventato leader del Partito Conservatore, istruì tutti i suoi parlamentari a leggere al riguardo il libro Nudge, scritto da Cass Sunstein e Richard Thaler, (quest’ultimo considerato uno dei padri dell’economia comportamentale); Barack Obama adottò misure simili, firmando nel 2015 un executive order per esortare tutte le agenzie governative a tener conto dell’ormai corposa massa di conoscenze ottenuta dalle scienze comportamentali.
A livello di Unione Europea, il 2016 è stato un anno di svolta grazie a molteplici iniziative, culminate nella pubblicazione del rapporto Behavioural Insights Applied to Policy (BIAP), che non solo fornisce un compendio delle principali politiche comportamentali attuate in Europa, ma evidenzia come ci sia la necessità di continuare a espandere questa pratica e renderla meccanismo stabile del sistema. Esso fornisce anche delle linee guida che i Paesi membri possono seguire. Inoltre, la pubblicazione descrive alcuni errori di politiche che, basandosi sul buonsenso, hanno ottenuto effetti controproducenti proprio per la mancanza di una lettura sotto la lente comportamentale. L’impegno dell’UE viene esplicitato anche nella richiesta, molto frequente nel 2017 e già presente nel 2018, di includere questa metodologia nelle proposte progettuali per i bandi di finanziamento.
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Il futuro delle scienze comportamentali si prospetta roseo: sono sempre più i governi che se ne avvalgono, e una gran parte delle aziende di rilevanza globale sta utilizzando l’economia comportamentale con crescente intensità e per un ventaglio di obiettivi sempre più vasto. La sfera ecologica non è da meno, dove migliaia di progetti stanno prendendo piede, nel pubblico come nel privato, in ambito locale come all’UNEP. L’Italia, un tempo più timida, sta diventando la culla di promettenti iniziative: il GSE ha utilizzato un nudge che ha spinto i proprietari di impianti fotovoltaici ad attuare una migliore manutenzione, incrementando la produttività del 4%, mentre E-on Italia ha creato un laboratorio specifico per lo studio delle scienze comportamentali nell’ambito energetico. Un altro risultato è stato raggiunto l’ottobre scorso con il conferimento al summenzionato Richard Thaler del Premio in memoria di Alfred Nobel per le Scienze Economiche.
Le sfide non mancano: bisogna interrogarsi se gli effetti di tutti questi interventi si mantengano tanto elevati con lo scorrere del tempo quanto lo siano al momento della loro introduzione; se la diffusione di un particolare intervento in più ambiti non ne comprometta l’efficacia media, o se invece si andrà incontro ad una soglia di saturazione. L’aspetto etico è di non minore importanza, e vi è la necessità di delineare le condizioni entro cui questo genere di approccio è applicabile. Le politiche comportamentali, inoltre, per via della semplicità di applicazione, dei bassi costi e degli effetti considerevoli, non deve spingere il decisore a trascurare altre tipologie d’intervento: vanno intese come complementari e non supplementari alle politiche strutturali.
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E’ importante sottolineare a questo punto che l’assenza dell’imbuto comportamentale può rendere però alcuni obiettivi difficili, se non impossibili, da raggiungere e, essendo questa disciplina relativamente nuova, ci si può aspettare di avere ulteriori sorprese positive negli anni a venire. La pubblica amministrazione e le istituzioni sono le prime ad averne tratto beneficio e l’augurio è che questo trend continui. D’altronde, riflettendoci su, non è poi così strano voler andare a vedere come funziona il comportamento umano quando si vuole agire, appunto… sul comportamento umano.