Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Confessioni di un marketer di Enrico Marchetto, edito da Apogeo.
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Qui tutto nasce da una banalissima intuizione creativa, una specie di insight: siamo a ridosso di un periodo particolare, la fine della scuola, abbiamo un soggetto-totem di questo segmento temporale ovvero la maestra, abbiamo un prodotto perfettamente coerente con lo scenario, che pare proprio il trait d’union migliore possibile tra il tempo reale che le persone (i genitori) stanno vivendo e la figura più iconica in quel preciso momento della vita dei figli (la maestra). Intuizione ottima, non c’è che dire. Solo che ci manca un elemento, ovvero vali- dare se esista o meno un interesse reale per quel topic ed esplorarne i potenziali sub topic. Uno degli obiettivi di questo libro, oltre al mero raccontarvi il mio mestiere da uno specifico punto di vista, cioè il mio, è quello di pro- vare a inseguire la chimera di ogni autore in Italia: lasciare al lettore anche qualcosa di pratico e di immediato da fare. Bene, adesso avete tutti gli strumenti per verificare voi stessi se “regalo alla maestra” sia stato o meno un’ottima idea. Spoiler: lo è stata.
L’incontro con Meta Advertising
Quando ho cominciato a occuparmi di Meta, e in particolare di Meta advertising, era il 2012, e mai avrei pensato che un giorno mi sarei trovato a insegnare questa materia. Del resto suona comunque strano che l’uso di un software o, meglio, una piattaforma, diventi una mate- ria oggetto di didattica che esca dall’alveo classico della manualistica per diventare una disciplina molto più ampia che coinvolge psicologia cognitiva, statistica, antropologia, sociologia dei consumi. E soprattutto mai avrei pensato di scriverci sopra tre libri.
In questo percorso verticale, come ogni Jedi che si rispetti ho avuto un Padawan, il più fedele di tutti: Massimo Carraro. Massimo è un imprenditore di Milano, anzi di Lambrate – un conto è Milano, un altro è Lambrate. Massimo è il direttore di Cowo e il suo business, come fa capire il nome, è quello dei coworking. Hai un ufficio con qualche scrivania a disposizione? Bene, quelle postazioni, se ti rivolgi a Massimo, possono ospitare freelance, piccole agenzie, lavoratori che invece di starsene a casa “in smart” preferiscono un’avventura condivisa con altre persone di diverso mestiere in uno spazio di lavoro. Max si occupa di tutto: contratti, modulistica, e soprattutto organizza delle campagne marketing per popolare quello che un tempo era il tuo ufficio e che ora è diventato un vero e proprio spazio di coworking.
Lui era presente al primo corso che tenni in quel di Bologna, sulla pubblicità su Facebook (all’epoca esisteva solo Facebook) e da allora non se n’è mai perso uno, oltre a essere diventato mio cliente diretto. Fin da principio abbiamo lavorato sulle leve che spingono le per- sone a informarsi sul lavoro in un coworking e studiato i principali trigger point in grado di attivare l’attenzione di segmenti di audience specifici. Il metodo è quello che vi ho appena descritto, ovvero una precisa valutazione di chiavi di ricerca, analisi dei competitor, analisi qualitativa della “voce” espressa da un coworker dentro recensioni e testimonianze. Ne abbiamo individuati tre che da sempre hanno sorretto le stimolazioni marketing di Cowo.
1. La prossimità. Cioè la penetrazione di Cowo sul territorio nazionale che gli ha permesso di aprire uno spazio di lavoro nelle principali città italiane. Questo ti spalanca una porta enorme in termini di comunicazione, perché attiva subito la possibilità di georeferenziare la tua stimolazione nel luogo preciso di residenza della tua audience, per esempio “Cerchi un ufficio a Trieste? Cowo è la soluzione”.
2. Il costo. Per una piccola impresa o per un freelance lavorare in coworking è sicuramente più economico rispetto all’affitto di un ufficio tradizionale. E anche qui il gioco del trigger è orientato a lavorare su “Hai idea di quanto costi affittare un ufficio? Minimo il doppio di un coworking”.
3. Networking. Cioè la possibilità di incontrare altri professionisti di diversi settori e, perché no, potenziali collaboratori, che possono offrire opportunità di nuovo business e nuove idee. Qui il trigger classico è un reel basato sulla vita nel coworking o sulle testimonianze di chi ha fatto questa scelta e non tornerebbe mai più indietro. Di potenziali stimolazioni ce ne sono a decine, ma con l’esperienza e numeri alla mano, Massimo ha selezionato queste tre come baricentro su cui far ruotare la maggior parte delle proprie campagne online.
E fin qui tutto funziona a meraviglia. Fino a quando. Il Covid. Nel lungo periodo l’approccio col mondo del lavoro in una sede fisica cambia completamente, più come stato mentale che come effet- tivo problema di sicurezza: “Perché mai dovrei avere bisogno di un luogo di lavoro quando ho imparato che posso starmene tranquilla- mente a casa mia?”. Il campionato di Massimo si fa sempre più complesso.
Ma non solo: i pain points, ovvero le resistenze sono sempre più variegate, perché se prima l’ufficio era dato per scontato, e quindi i relativi costi erano un male necessario, ora crolla anche questa credenza, perché i costi posso risparmiarli in toto rimanendo a casa. Stessa cosa per il network, sì figo ma comunque non è che stare tra le mura domestiche mi impedisca di avere relazioni profittevoli; e in più se parliamo di prossimità cosa c’è di più prossimo della mia cucina, della mia sala da pranzo e del mio studio?
Come in uno schema di Zelda le difficoltà aumentano, e le skill del mio marketing si devono adattare ed elevare la mia proposta per rispondere alle più disparate resistenze cognitive. “Massimo, ma perché non ci facciamo aiutare dell’intelligenza artificiale? Perché non facciamo un test con ChatGPT?”. Cominciamo a interrogare il chatbot per capire se possa essere una potenziale fonte di ispirazione porgendo all’AI una domanda semplicissima e banale: “Quali sono i principali pain points nel decidere di andare a lavorare in un coworking?”.
Ci risponde così.
1. Costo. Anche se i coworking offrono una soluzione flessibile possono essere costosi rispetto al lavorare da casa o in altri ambienti gratuiti. I costi possono includere l’affitto della scrivania, l’accesso alle sale riunioni e altri servizi.
2. Distraibilità e rumore. In un ambiente condiviso il rumore e le distrazioni possono essere più frequenti. Le conversazioni degli al- tri, le telefonate e i vari rumori di fondo possono rendere difficile concentrarsi.
3. Mancanza di privacy. Lavorare in uno spazio aperto può significare meno privacy per le conversazioni personali o per lavorare su progetti sensibili. La condivisione dello spazio con estranei può limitare la sensazione di riservatezza.
4. Disponibilità di spazio e risorse. In alcuni coworking potrebbe esserci una competizione per le risorse comuni, come sale riunioni, stampanti o scrivanie ergonomiche. La disponibilità limitata può essere un problema se hai bisogno di certe risorse in momenti specifici.
5. Logistica e tempo di spostamento. Anche se un coworking è situato in una posizione centrale raggiungerlo richiede del tempo. Questo può rappresentare un problema, specialmente in città con traffico intenso o con mezzi pubblici inefficienti. Interessante. Interessante in primis perché, se utilizziamo come esempio il tema dei costi, l’intelligenza artificiale prende immediatamente in considerazione un punto focale: il confronto non è più “ufficio vs coworking”, ma “coworking vs lavorare da casa”.
E questo invalida la nostra leva prezzo primaria. Certo, possiamo ancora continuare a spingere un copy come: “Stanco di spendere troppo per un ufficio che nemmeno usi completamente? Scopri come un coworking possa offrire flessibilità senza rompere il tuo budget!”. Ma così facendo parleremmo solo all’audience che vive ancora nella dimensione dell’ufficio fisico, non certo a tutti i freelance che ormai si sono abituati al lavoro in casa. Interessante anche perché suggerisce un elemento nuovo a cui non avevamo mai pensato: la distraibilità. Un coworking può essere carico di rumore e di elementi che sviano l’attenzione, ma questo vale anche per casa tua, con il tuo abbonamento a una o più piattaforme di streaming video, il corriere che ti suona durante una call, le tue mille chat di messaggistica.
A questo punto mi si apre una potenziale nuova strada, ragionando sulla combinazione di due pain point, costo e distraibilità, per dare vita a una stimolazione inedita: “Isolato, strapieno di cose da fare, continuamente distratto. Per un giorno, perché basta un giorno per accorgertene, vieni a sperimentare gratis la vita di un coworking!”. E proviamo ad accompagnare il tutto con un trigger point visi- vo basato sul prima e sul dopo, con un’immagine anch’essa suggerita dall’intelligenza artificiale: “Create a realistic image of a lonely freelancer working late at night in a dark, isolated room, surrounded by empty coffee cups and crumpled papers, feeling overworked”.
A cui noi aggiungiamo l’elemento del dopo, con l’immagine opposta: con il freelancer in un contesto sociale illuminato, che condivide gli spazi con altri coworkers, nel totale silenzio. Guarda in camera, sorride, appoggia il dito indice tra le labbra e il naso e ci dice solo “shhh”.
All’inizio del capitolo ci siamo lanciati nell’esplorazione di possibili risposte a due grandi domande: perché è necessario accelerare un processo di attivazione dell’attenzione e, soprattutto, se effettivamente un trigger point, un agente attivatore, sia progettabile a tavolino. La risposta alla prima domanda è molto chiara ed evidente: è necessario accelerare un processo di attivazione dell’attenzione perché in un contesto in cui l’attività distributiva è gestita principalmente dall’algoritmo quest’ultimo ha bisogno di una guida, di un Mosè che lo conduca alla terra promessa del target di riferimento e, già dal primo impatto, la nostra speranza è quella di avviare un processo di attenzione dell’audience che raggiungiamo.
E fin qui ci siamo. L’elemento problematico, sempre che lo sia a questo punto, è nella seconda domanda: quanto siamo in grado di creare un agente attivatore in laboratorio? Un trigger point che abbia tutti i sacri crismi per fermare quel maledetto pollice, o indice che sia, nel flusso dei contenuti e radicare l’attenzione verso il nostro contenuto. La mia personale risposta, dopo un decennio di esperienza, è sì, tutto è ampiamente costruibile in modo empirico, quasi scientifico. Il marketing non è una scienza, per ovvi motivi, ma il nostro incedere nel lavoro quotidiano deve provare ad assomigliare a un metodo scientifico con gradi e livelli differenti; abbiamo imparato nel corso del tempo a non prescindere da alcune certezze.
Il contenuto non deve essere mai casuale, figlio del momento, o dettato da una classica sindrome di ansia da foglio bianco “Oddio cosa scrivo oggi sul mio canale Instagram”. Non dev’essere nemmeno figlio dell’incedere “cane-cane” e “gatto-gatto”, come dice sempre mia compagna, citando il Trio Medusa e scherzando di fronte a un ragionamento molto debole. La progettazione “cane- cane, gatto-gatto” è una delle malattie più diffuse nei contenuti odierni sui social media. Abbiamo una nuova linea di prodotto? Pubblichiamo la nuova linea di prodotto. Cane-cane Realizziamo un piatto inedito nel nostro menù del ristorante? Pubblichiamo una foto del nuovo piatto. Gatto-gatto.
A questo punto l’architetto del contenuto dev’essere sincero con se stesso e domandarsi se l’effettivo “mostrare” qualcosa di nuovo sia di per sé un elemento attivante, e credetemi: 9 volte su 10 non lo sarà. Perché l’audience di riferimento sarà invasa da centinaia, se non migliaia di contenuti “cane-cane, gatto-gatto” ogni giorno e non c’è alcuna ragione che giustifichi l’attenzione proprio verso il vostro post.
Francesco Agostinis, tra i più noti e preparati advertiser del panorama italiano, rispondendo a una domanda di un follower su Instagram, ha messo nero su bianco una perfetta interpretazione del trigger point: “L’unica cosa che conta è l’esperienza ricca dell’utente nel rapporto col vostro contenuto”. Una nuova sedia non è un’esperienza ricca, è solo mostrare una nuova sedia.
Un piatto, anche ben fotografato, non è di per sé un’esperienza né ricca né stimolante. O il vostro contenuto possiede requisiti di spreadability, cioè la capacità di espandersi in orizzontale, e di drillability, cioè lo sviluppo in chiave verticale e immersiva, o non avrà alcune chance di essere memorabile. Ecco, spreadability e drillability le ho buttate lì in mezzo, nel mucchio, senza minimamente approfondirle ma l’ho fatto consapevolmente approfittando del filo conduttore di questo libro, della vostra pazienza (anche un po’ di curiosità?). Al momento mi interessa solo sottolineare che no, nel 2024, il contenuto casuale, non pensato, non ragionato ma soprattutto non progettato col preciso fine di attivare l’attenzione, non è ammesso.
A questo punto posso rivolgermi a due tipologie di pubblico, chi dei social media ne fruisce, chi i social media li gestisce. Nel primo caso il mio obiettivo è quello di renderci maggiormente consapevoli che la maggior parte di tutto ciò che fruite ogni gior- no è figlio di un preciso intento: ottenere la reazione per cui quel contenuto è stato progettato. “Prima e dopo” sono pensati per mettermi nella condizione di sognare come sarebbe la mia stanza se a un certo punto venisse illuminata dall’alto. Mi fa sentire manchevole di non aver percorso questo sogno, lavora su quel difetto di accidia e di pigrizia di fronte a una trasformazione a cui ho abdicato e che invece migliorerebbe di molto la qualità della mia vita.
Un “contenuto polarizzante” è progettato con lo scopo preciso di farci schierare, o sì o no, indignarci nell’uno o nell’altro senso, o in accordo o in opposizione. La nostra indignazione aumenta la spreadability di quel post e lo propaga verso una nuova audience che, come noi, non vedrà l’ora di indignarsi e di contribuire a moltiplicare il processo distributivo (la Torta Sacher ha fatto scuola in tal senso!). Un contenuto che lavora su un “pain point” fa emergere le vostre debolezze, le vostre paure, per certi versi anche i vostri traumi con l’obiettivo di placarli. E chi può placarli meglio dell’azienda emittente del contenuto?
Nel secondo caso, volendomi rivolgere a un lettore che i social media li gestisce, avete le armi e gli strumenti per un approccio “scientifico” al contenuto. Non usarli significa immediatamente cedere il passo alla content blindness, a un pubblico totalmente cieco rispetto a un deficit di esperienza ricca e stimolante del vostro piano editoriale. In realtà, la reason why di tutto questo testo vuole proprio per- correre quel crinale che separa audience e agente attivatore: da un lato esplorare il dietro le quinte di un contenuto e disinnescarne i meccanismi manipolatori; dall’altro migliorare la propria consapevolezza di architetti del trigger point, potenziando lo stimolo verso un pubblico sempre più raffinato e sempre meno attento.
Con l’avvento dell’Intelligenza artificiale generativa non passa giorno che io non sia perseguitato dalla solita domanda sia di esperti che di profani, “Ma se ChatGPT è in grado non solo di inquadrare i pain point, ma anche di fornirci copy, immagini da creare pensate per quello stimolo, scenari di mercato e tipologie di audience diverse con trigger point differenti per target, allora può sostituirsi a noi?”.
Io soffro di S.A.R. da quando sono nato. La S.A.R. è la Stomatite Aftosa Ricorrente, le afte che ti vengono in bocca per capirci. E non c’è rimedio alcuno, ho visitato qualcosa come 15 specialisti nella mia vita e non ho mai trovato una soluzione, neppure nel- la medicina olistica. Ma c’è una cosa che la medicina alternativa mi ha ripetuto spesso: che l’origine, secondo loro, è interamente psicosomatica, ed è lo specchio del mio trattenermi, trattenere le emozioni, trattenere soprattutto la rabbia. Non avete idea di quante afte mi vengano in bocca quando sento questa domanda, anzi me ne stanno affiorando due sul labbro inferiore anche solo scrivendo queste righe. L’intelligenza artificiale generativa è uno strumento. Punto.
Non è mai la soluzione. Certo, tra creare contenuto a caso e farli creare a ChatGPT è sempre meglio la seconda strada. Ma è evidente che nel lungo periodo l’effetto sia lo stesso e sempre quello: content blindness. Alessandro Gargiulo usa una formula molto semplice ma decisa- mente efficace per esplicitare questo concetto, “Dobbiamo evitare che sembri tutto pensato e scritto da ChatGPT classico”. Alessandro vi sta dicendo che l’output della AI a cui abbiamo accesso tutti è ormai ben riconoscibile, si è fatto letteratura standard, identificabile, sempre identico a se stesso. Solo per fare un esempio molto pratico, quando ho scritto questo copy per Cowo, “Isolato, strapieno di cose da fare, continua- mente distratto. Per un giorno, perché basta un giorno, vieni a sperimentare gratis la vita di un coworking!”, l’originale prodotto da ChatGPT era: “Trovare l’ispirazione giusta può essere difficile quando lavori in solitudine. Cowo ti offre un ambiente vibrante e professionale dove la tua creatività può prosperare. Unisciti a noi e scopri la differenza che un ottimo spazio di lavoro può fare.”
E quando si tratta di consigliare un’immagine da affiancare al copy ha solo prodotto l’archetipo di un tizio che se ne sta isolato in una stanza buia; il resto dell’immagine, la generazione di un prima e di un dopo, l’abbiamo aggiunto noi. Capite? All’intelligenza artificiale manca l’arte, l’elemento intellettuale che fa la differenza, le reference del qui e del dove, il tocco creativo. Certo che si tratta di un potenziale copy di sicuro migliore di una produzione casuale, ma è lontano anni luce dall’output che abbiamo rielaborato noi, in una chiave più creativa e intensa. Potrei mai lavorare senza ChatGPT nel 2024? No, è evidente.
Evidente per la quantità di output che riesce a generare in tempo zero, serve ad accorciare il tempo e lo spazio delle mie giornate, serve a fornirmi centinaia di spunti e di angle a volte totalmente inesplorati (per esempio la distraibilità nel caso di Cowo), serve a mettermi nero su bianco nell’arco di pochi secondi dei pain point su cui lavorare e arricchirli, serve a crearmi una base di lavoro solida su cui innestare un percorso di rielaborazione creativa e letteraria. Se lasciamo fare all’intelligenza artificiale in toto, adottando la lingua e l’approccio poco empatico di ChatGPT, sicuramente miglioreremo il lavoro a caso, ma nel lungo periodo limiteremo tutto il lavoro fatto successivamente.
Ho scritto davvero “empatico”? Incredibile, mi ero ripromesso di farlo fin da subito e invece ho aspettato tantissimo prima di scrivere la mia parola chiave preferita. Sapete perché? Perché l’ispirazione per scrivere questo libro ha origine proprio dal termine “empatia”. Ero a un festival letterario a Trieste, un paio di anni fa, e sul palco c’era uno dei miei romanzieri italiani preferiti per un talk con un famoso scienziato e alla presenza di un moderatore, anche lui uno scrittore molto conosciuto.
Prende la parola il mio favorito che ragiona proprio sull’uso e l’abuso della parola “empatia”. “Nella nostra società abbiamo l’abitudine di dare sempre una connotazione positiva all’empatia. Ci proietta subito in uno scenario in cui esaltiamo la nostra capacità di prendere i panni dell’altro sentendo le sue emozioni, i suoi stati d’animo, le sue paure. E sempre con la volontà di fare del bene. Ma sia chiaro, l’empatia è una parola neutra. Il suo significato si ferma solamente alla comprensione dell’altro. Chi lo dice che dobbiamo per forza fare del bene? Anzi, spesso accade che indossiamo i panni dell’altro per fargli del male, per manipolarlo”.
Questa frase si è depositata in un anfratto della parte bassa del mio addome, credo all’altezza del secondo Chakra, quello delle emozioni, dei sensi e della creatività. E poi, dopo qualche giorno, ha cominciato a bussare: prima dei piccoli tocchi, poi un tamburellare insistente. “Ma non è che forse molto del mio mestiere stia proprio nel riprodurre archetipi empatici per manipolare il mio pubblico?”.