A scorrere l’elenco delle partecipazioni societarie, senza soffermarsi almeno per il momento sulle percentuali, si può dire che in Ag Digital Media, la società dietro Freeda, ci avessero scommesso le più grandi dinastie del Paese, dagli Elkann (con Ginevra) ai Berlusconi (con Luigi). Ma era il solo aspetto che ha accomunato questo nuovo modo di fare comunicazione con i media tradizionali (carta stampata, radio e tv, dove sovente si trovano com’è noto tanto i nomi degli Elkann quanto dei Berlusconi). Anzi, no, c’era un altro punto di incontro: la crisi economica in cui versa l’informazione.
Chi ha scommesso in Freeda
La startup era nata a Milano nel 2016, per volontà dei fondatori Gianluigi Casole e Andrea Scotti Calderini che ne detenevano un 12,4 per cento ciascuno. E, secondo quanto ha anticipato Il Sole 24 Ore, ha depositato l’istanza di liquidazione volontaria.
Salvo improvvisi colpi di scena, termina così l’avventura della media company in cui avevano investito il fondo francese di venture capital Fpci Alven Capital V, attualmente al 32,28% del capitale sociale, Ginevra Elkann (7,21%), la Fidim dei fratelli Luca e Lucio Rovati, la Our Group di Remo Ruffini patron di Moncler, Nerio Alessandri patron di Technogym e Luigi Berlusconi proprietario di un prudenziale 0,4 per cento.

Nel 2019 la media company aveva concluso un round di serie B da 16 milioni di dollari guidato da Alven, Unicredit ed Endeavor Catalyst. L’anno prima l’aumento di capitale era stato da 10 milioni di dollari.
Anche i media non tradizionali soffrono la crisi
Ma a quanto pare terminata l’iniezione di liquidità, i conti della startup meneghina (con uffici anche a Madrid e a Londra) hanno ripreso a boccheggiare. Già a inizio anno Affari Italiani dava conto di perdite non ripianate per circa 8 milioni e debiti per quasi 20 milioni rintracciabili nei bilanci del 2023 ma Ag Digital Media precisava che fosse “errato affermare che vi siano perdite non ripianate per 8 milioni di euro. Il passivo, pari a circa 7 milioni di euro” secondo la nota diramata dalla startup sarebbe “stato completamente portato a nuovo grazie alla capienza nelle riserve del patrimonio netto”.
“Per quanto riguarda l’indebitamento”, Ag Digital Media specificava “che i debiti finanziari verso le banche a medio-lungo termine si” attestassero “a 9 milioni di euro, mentre la restante parte” riguardasse “obbligazioni legate alla gestione operativa dell’azienda, rientrando nella normale amministrazione societaria”.
A prescindere dalla nota di Ag Digital Media, sembra comunque che Affari Italiani avesse fiutato la crisi. Ma quello che più preme sottolineare è che chi pensava che esperimenti coraggiosi come Freeda potessero essere l’antidoto alla crisi ormai endemica in cui versano i media tradizionali dovrà quindi ricredersi. E interrogarsi su quale possa essere il futuro dell’informazione.