Vittoria Paradisi racconta in un diario la summer school organizzata dalla vice presidente di Impara Digitale che spiega i principi della classe scomposta e capovolta
«Non esiste la scuola digitale. Esiste la scuola. Che usa anche il digitale» ecco l’affermazione che più mi spiazza ma che più mi piace di questa prima giornata di Summer School all’ITIS Marconi di Jesi condotta da Dianora Bardi, Vicepresidente Centro Studi Impara Digitale. Il ragionamento della Bardi è chiaro: dall’Unione Europea sono giunte da diversi anni le indicazioni per una didattica per competenze e, al tavolo del Ministero dell’Istruzione (a cui la Bardi siede spesso), si è deciso che si accelererà su questo obiettivo. Fare didattica per competenze significa scendere dalla cattedra per far diventare i ragazzi stessi costruttori del proprio sapere. Tutto ciò non può prescindere dall’uso delle nuove tecnologie.
Il cooperative learning, che pure ha molti punti di forza, ha anche punti deboli piuttosto consistenti, tra i quali la parcellizzazione del sapere, la difficoltà di valutazione, l‘imposizione di ruoli da parte del docente. In particolare, oggi, con l’uso delle tecnologie, i ragazzi stanno fisicamente in classe ma entrano ed esplorano il mondo virtuale che è a loro disposizione con un click.
Come trovare allora il modo di rendere proficua e significativa una lezione con le tecnologie? In particolare, come capire il processo di apprendimento, aiutarlo e valutarlo? Insomma, che cosa fa Dianora Bardi in classe? Ce lo spiega così: lei entra in classe, contestualizza l’argomento attraverso una mappa, illustrando le connessioni con le altre discipline, chiede ai ragazzi altri possibili collegamenti, infine chiede loro di studiare l’argomento. Come? “Affari loro!” esclama Dianora sorridendo. In realtà ciò significa che si fa ricerca in classe. E come? Come la farebbero a casa, ma seguiti da vicino dal docente che gira tra i vari gruppi, osserva, discute, ricerca con loro.
L’ambiente è quello da lei ribattezzato “classe scomposta“: i banchi ammassati ai muri, gli alunni liberi di muoversi, aggregarsi e sedersi come e dove vogliono. In aula c’è l’angolo biblioteca, piena di libri cartacei, tutti a disposizione dei ragazzi. Non solo. C’è anche l’area video, l’area per la creazione ebook, intesi come prodotti multimediali ad uso interno, l’area web conference , in cui i ragazzi si mettono in contatto con altre scuole e l’angolo studio individuale.
L’ambiente risulta familiare, quindi liberante (non libero!) e alla fine ci si siede in cerchio per dibattere e discutere sull’argomento analizzato. È chiaro che per fare ciò l’insegnante deve aver prima spiegato come si riconosce un sito scientificamente valido, che cosa è il copyright e la legalità in rete, quali sono i pericoli insiti nell’uso delle nuove tecnologie. Il metodo Bardi è un metodo in evoluzione, ci tiene a precisare. Integrabile, nei modi e nei momenti opportuni, con la flipped classroom, con il cooperative learning, ma anche con la lezione frontale.
Per fortuna – conclude Dianora Bardi – noi non siamo mai stati classe o scuola 2.0. Io non credo alle scuole “show room”, quelle con tre Lim, arredamenti costosissimi e all’avanguardia. Non a caso il brano proposto alla maturità era tratto da un mio articolo dal titolo “La tecnologia non fa scuola.
Ecco quello che di più significativo e vicino al mio modo di pensare mi rimane di questa giornata: noi insegnanti non dobbiamo inseguire le tecnologie ma utilizzarle mettendoci in gioco, al fianco dei ragazzi, accettando che siano anche loro ad insegnare qualcosa a noi. Dobbiamo mostrare entusiasmo e curiosità, senza certamente perdere il nostro carisma e la nostra autorità. Dobbiamo avvicinarci a quei volti carichi di attesa che ci troviamo davanti all’inizio di ogni anno scolastico.
Ecco la gallery fotografica del primo giorno di lezione:
di Vittoria Paradisi