Ecco 6 esempi virtuosi di buona scuola italiana, ma forse troppo digital divide
C’è un pugno di scuole innovative – una quarantina, pochissime- in Italia e il Governo adesso vuole renderle un modello per tutte le altre. Lavorando sulla formazione digitale degli insegnanti, potenziando le infrastrutture banda larga, che ora sono molto carenti. Eccolo: un piano organico per rivoluzionare la Scuola italiana, in ritardo di 15 anni su quella inglese (secondo stime Ocse). Finalmente. Ma anche un piano ambizioso, che richiederà centinaia di milioni di euro. E mica si sa, ancora, se il Governo sia in grado di mettere tutti questi soldi.
La Buona Scuola
Possiamo riassumere così le luci e le ombre del piano La Buona Scuola, con cui il nuovo Governo vuole andare a una delle ricorrenti sfide per ogni Legislatura: cambiare l’istruzione italiana, rendendola al passo con il resto d’Europa. Mission Impossible? No, se affrontata con le giuste risorse e impegno. Vediamo.
Il quadro
La situazione di partenza è infelice, proprio su uno degli aspetti cardine del nuovo piano: la banda larga in tutte le scuole. Secondo nuovi dati del Miur, solo il 10% delle nostre scuole primarie, e il 23% delle nostre scuole secondarie, sono connesse a Internet con rete veloce. È già un bene che il ministero metta in luce la realtà: i precedenti Governi preferivano glissare sull’effettiva copertura. Si tenga conto che la totalità delle scuole britanniche e del Nord Europa è già coperto da banda larga.
Il Censis nel suo “Diario della transizione” stima che per portare internet veloce servirebbero 7,9 euro al mese per studente, per un totale di 650 milioni di euro, dei quali 184 milioni per la connettività, 274 milioni per la sicurezza e 192 milioni per l’utilizzo delle infrastrutture e delle apparecchiature tecnologiche.
Secondo il rapporto Glocus, ne servono invece 400 milioni solo per la banda larga (Adsl o satellitare), per coprire le 140.000 aule che ancora non ne sono dotate, pari al 46 per cento del totale.
Altri dati vengono da un recente sondaggio di Skuola.net su un campione di oltre 1.600 studenti tra gli 11 e i 19 anni: due su tre dichiarano di non avere in classe una connessione Wi-Fi o di non utilizzarla per la didattica. Solo il 12% del campione inoltre avrebbe la possibilità di utilizzare un pc in classe tutti i giorni. Il 50% non ha mai visto un laboratorio pc. Solo il 6,7 degli intervistati ha detto di avere a disposizione un tablet o un pc messi a disposizione dalla scuola. Il 78% afferma di non aver mai utilizzato questi strumenti per le lezioni. Secondo Skuola.net appena ci sono appena 14 mila tablet in giro per le scuole. E’ vero che il nuovo piano dice no agli investimenti in hardware fatti in passato, ma si riferisce soprattutto alle Lim, mentre i tablet sono alla base di molte delle esperienze innovative di scuole digitali italiane (e non).
Va meglio con l’uso del registro elettronico, che però manca ancora nel 36 per cento delle classi; il 27 per cento invece lo usa in accoppiata con quello cartaceo, secondo una stima di Skuola.net.
Gli esempi di “Buona Scuola” digitale
«Non c’è bisogno di fibra ottica in tutte le scuole. Noi ci siamo adattati finora con due linee Adsl 20 Megabit. Solo da quest’anno- con 1300 studenti- abbiamo chiesto la fibra», ci spiega Salvatore Giuliano, preside dell’Itis Majorana, uno dei principali casi di scuola innovativa in Italia (tra l’altro, ha avviato il progetto Book In Progress, con libri di testo autoprodotti dai docenti). Le parole di Giuliano fanno capire un aspetto che tende a sfuggire anche a molti esperti: la banda larga è il punto di partenza, non quello di arrivo per una scuola che si rinnova. È necessaria, ma come tassello all’interno di un progetto didattico che dia agli studenti nuove tecniche e modalità di apprendimento. Al Majorana, internet serve nelle ricerche in classe, ma lo studio avviene prevalentemente su ebook residenti sui dispositivi o su video lezioni disponibili nella rete privata della scuola, accessibile in Wi-Fi. Cose per cui non serve la banda larga. Ecco perché la fibra non è necessaria all’avvio dei progetti.
E del resto «non sarebbe auspicabile basare le lezioni sulla navigazione internet degli studenti: sarebbe il caos», dice Giuliano. Insomma, la banda larga è una condizione necessaria, ma non sufficiente per una “buona scuola”. Cablare tutte le classi e pensare che basti, lavandosene poi le mani, senza cambiare la didattica, è solo un buon modo per sprecare fondi pubblici. Al contrario, le scuole innovative italiane- quaranta, secondo un recente studio di Indire (il più antico istituto di ricerca del ministero dell’Istruzione)- più che imbottirsi di tecnologia hanno avviato modelli didattici nuovi. E con successo: Indire ha sottoposto infatti ai test Invalsi gli studenti di quelle 40 scuole e i risultati sono stati superiori alla media nazionale
Per esempio, nell’istituto comprensivo Bruno Osimo (Ancona), l’insegnante dice agli studenti dove devono studiare la lezione (su internet), dà un obiettivo finale (produrre un testo) e poi li fa lavorare in gruppi. Il Facchetti Treviglio di Bergamo adotta l’insegnamento ribaltato: Si studia a scuola e si seguono le lezioni da casa. I materiali sono condivisi via Dropbox; su Facebook circolano i compiti da fare.
Il liceo scientifico Lussana di Bergamo è stato pioniere della classe “scomposta”. L’aula ha spazi destrutturati e aree dedicate a diversi tipi di approfondimento anche in contemporanea, grazie all’uso delle tecnologie.
Nella scuola elementare Virgilo 4 di Napoli di Scampia gli studenti apprendono la matematica in un laboratorio, con giochi e video su pc, tablet e Lim. Lavorano assieme intorno a un tavolo, senza ruoli rigidi, e imparano la materia attraverso le sue applicazioni pratiche. L’Itis Volta di Perugia è strutturata per dipartimenti: fa muovere gli studenti e lasciando i docenti fissi nelle classi, un po’ come nelle università. In ogni piano, i docenti di una stessa disciplina possono incontrarsi in uno spazio comune dove scambiare esperienze e materiali. Le normali lezioni frontali sono integrate con simulazioni su computer e apprendimenti collaborativi.
Nell’istituto Comprensivo di Montelupo Fiorentino (Firenze), i bambini delle scuole elementari lavorano in modo collaborativo e autonomo: con un computer personale collegato alla Lim di classe, usando libri e contenuti digitali, oltre che carta e quaderni. Nel Pacioli di Crema c’è una classe tecnologica priva di cattedra, con un ambiente collaborativo per una ricerca e un insegnamento condivisi. Il docente assume il ruolo di un regista per una lezione che si svolge dal basso.
Il piano
Dobbiamo passare ora dalla fase delle “poche scuole innovative ma buone” a quella dell’innovazione diffusa. Il Governo ne è consapevole, come risulta dagli obiettivi dichiarati nel piano. Pensa di valorizzare le esperienze già realizzate, con il modello delle reti di scuole, per favorire la formazione dei docenti al digitale. Si legge nel piano: “dove l’aula ha spazi destrutturati e aree dedicate a diversi tipi di approfondimento anche in contemporanea, grazie all’uso delle tecnologie”. È un approccio che era già stato suggerito dall’associazione Impara Digitale: «le reti di scuole devono essere concepite non come formazioni accidentali, volontaristiche e costruite ad hoc per progetti e risposte a bandi, ma come soggetto intermedio “riconosciuto” tra la singola scuola e il livello nazionale, anche amministrativamente per la condivisione di risorse», diceva Dianora Bardi, vicepresidente dell’associazione, prima dell’avvio del piano ministeriale. «In assenza di un forte sistema di condivisione delle conoscenze e di diffusione delle buone pratiche, il rischio è di oscillare tra la tentazione verticistica di “dettare” linee guida (per l’autoproduzione dei contenuti digitali, per la realizzazione di ambienti di apprendimento), destinate ad essere rapidamente obsolete ed ignorate, e quella di “lasciar fare”, illuminando gli esempi di eccellenza ma aumentando il gap tra le scuole e, all’interno di queste, tra le classi».
Un altro punto di innovazione, nel piano governativo, è rendere gli studenti “produttori digitali”: insegnando la programmazione a partire dalla primaria (iniziativa Code.org, che partirà in autunno) e dando l’opportunità di praticare tecniche di stampa 3D (programma Digital Makers).
I dubbi principali, come si diceva, è nella capacità di trovare risorse: non solo per la banda larga, ma anche per preparare il corpo docente per una trasformazione così radicale nella mentalità e nelle competenze. Non resta che vedere i prossimi passi, ricordando però che non c’è ancora chiarezza sugli investimenti. Il grosso della spesa nella scuola digitale, in Italia, è alle spalle: 110 milioni dal 2007-2010 e poi 40 milioni nel 2012-2013. Nel 2014, proprio con il Governo Renzi, finora c’è stato uno stop (sul tavolo ci sono appena 15 milioni di euro per mettere il Wi-Fi nelle scuole e 5,3 milioni per dispositivi digitali di lettura). È possibile che il grosso dei fondi debba ancora venire, ma nel frattempo bisogna trattenere il fiato e l’entusiasmo.
Articolo precedentemente pubblicato su CheFuturo!
di Alessandro Longo