Il termine apparve per la prima volta nel 1997 nel libro di Clayton Christensen “The innovator’s dilemma”. Da quel momento, ha conosciuto una fortuna crescente. Con molti fraintendimenti. Nel nostro longform domenicale proviamo a capire cosa intendesse realmente lo studioso statunitense e perché il mantra “disrupt or be disrupted” può portare fuori strada
Cos’è la disruption? Il termine apparve nel 1997 nel libro di Clayton Christensen “The innovator’s dilemma“. Christensen voleva spiegare come piccole aziende dotate di pochi mezzi possono entrare in un certo mercato e sconvolgerlo. O – almeno – sparigliare le carte, scuotere l’ordine consolidato. La fortuna del termine è aumentata con l’esplosione della tecnologia digitale. Con più di qualche fraintendimento. Perché per essere disruptive, non è necessario occuparsi di bit o sfornare applicazioni. E la teoria non può applicarsi ad alcuni casi notissimi. Un esempio? Uber. Gli equivoci sono stati così tanti che cinque anni prima della morte (avvenuta nel 2020), lo stesso Christensen (assieme ai coautori Micahel Raynor e Rory McDonald) sentì il dovere di precisare il concetto. L’articolo, intitolato in maniera inequivocabile “What is disruptive Innovation“ risale al 2015.
Disruption: cosa intendeva davvero Christensen
Ma cosa intendeva davvero lo studioso statunitense? In buona sostanza, questo: una strategia aziendale che inizialmente punta a un segmento di clientela trascurato con un’offerta nuova ma modesta, e che gradualmente si sposta verso la fascia alta del mercato per sfidare i leader. Quello della disruptive innovation non è un mero costrutto teorico hegeliano: è una teoria empirica, precisano gli autori, che prende mosse dai dati per arrivare a indagare le cause di un fenomeno controintuitivo. Ma, notano gli stessi autori, “nonostante l’ampia diffusione, i concetti chiave sono stati ampiamente fraintesi e i suoi principi frequentemente disapplicati”.
“C’è un altro problema” aggiungono gli studiosi. “Troppe persone che parlano di disruption non hanno mai letto alcun libro serio o almeno un articolo sull’argomento. Troppo spesso, usano la parola in maniera vaga per richiamare il concetto di innovazione a supporto di qualsiasi cosa vogliano fare”. Insomma, molti ricercatori, autri e consulenti usano il termine disruptive innovation “per descrivere ogni situazione in cui un settore industriale è scosso e i campioni di una volta incespicano”. Senza sapere che si tratta di un caso particolare. Perché “differenti tipi di innovazione richiedono approcci strategici diversi”.
Perché Uber non è disruptive
Christensen spiega perché, secondo la sua teoria, Uber non è disruptive. Un’azienda disruptive si concentra su segmenti di mercato “bassi” e trascurati, mentre le altre, le cosiddette incumbent, cercano di vendere sempre più servizi esclusivi ai clienti maggiormente profittevoli.
“Troppe persone che parlano di disruption non hanno mai letto alcun libro serio o almeno un articolo sull’argomento: usano la parola per richiamare il concetto a supporto di qualsiasi cosa vogliano fare”
Insomma, cercando di spostarsi verso il lusso, che garantisce margini più alti. I biglietti aerei di prima classe, in proporzione, non offrono comfort così superiori da giustificare un prezzo triplo, quadruplo, a volte persino dieci volte superiore rispetto all’economy. Dopotutto, si viaggia sullo stesso aereo: eppure, esiste una quota di passeggeri disposti a pagare determinate cifre per avere più spazio, cibo migliore, priorità al check in. Col risultato che buona parte del costo del volo viene pagato da questa categoria di viaggiatori, pochi rispetto al totale.
Al contrario, nota l’americano, difficilmente si può affermare che le compagnie di taxi si comportino allo stesso modo, dal momento che offrono un servizio di qualità mediamente scarsa a tutto il pubblico dei clienti, indistintamente. Così, prosegue il ragionamento, Uber non parte dal basso, non punta, cioè, a chi prendeva l’autobus o guidava la propria macchina o motorino: i suoi clienti sono persone che già usavano il taxi, e che hanno trovato una semplificazione nel poter chiamare una vettura con un paio di tap sull’applicazione, poter pagare senza bisogno di contanti usando il cellulare – cosa praticamente impossibile fino a qualche anno fa – e scrivere recensioni sugli autisti.
Disruption, i principali equivoci
Ma quali sono i principali equivoci concettuali sul termine disruption? Innanzitutto, la disruption è un processo, non un evento puntuale. Ed è proprio perché richiede tempo che gli incumbent spesso la sottovalutano. Insomma, se ne accorgono quando è troppo tardi. Un esempio? Il caso di Netflix e Blockbuster. Netflix, nata nel 1997, spediva le videocassette per posta. Anche se la prenotazione era digitale, ci volevano giorni per poter vedere un film: il servizio attraeva solo i cinefili appassionati a vecchie pellicole, che potevano fare scorpacciate di titoli al solo costo fisso di un abbonamento mensile. Blockbuster, come evocava il nome, dal canto suo, serviva clienti che cercavano prevalentemente le ultime uscite, quelle che sbancavano il botteghino, e decidevano di impulso nei suoi negozi fisici. Fino alla prima metà degli anni Duemila, ognuno serviva la propria fetta di mercato. Ma la tecnologia cambiò, migliorarono le connessioni e non ci volle molto perché la possibilità di scegliere il film preferito e goderselo in streaming senza muoversi da casa e soprattutto doverlo restituire soppiantasse il noleggio in negozio. Da quel momento, dopo aver cominciato da una nicchia di clienti squattrinati e disposti a rinunciare alle ultime novità e all’immediatezza in cambio di prezzi bassi, Netflix ha cominciato la scalata verso il mercato mainstream. Com’è andata a finire, è storia piuttosto nota. (Vale la pena di notare che anche per la Netflix degli esordi, il binge watching di alcuni era possibile grazie al fatto che molti clienti noleggiavano poco, o addirittura si dimenticavano dell’abbonamento).
Concentrarsi sul modello di business
In secondo luogo, afferma Christensen, i disruptor tendono a concentrarsi sul modello di business piuttosto che solo sul prodotto. Significa tenere la barra dritta, senza lasciarsi vincere dalle tentazioni di monetizzare subito; e, forse soprattutto, perseveranza: le partite durano novanta minuti, e non sono finite fino a che l’arbitro non ha fischiato. Quando lo spostamento dal settore low end del mercato al mainstream riesce, erode prima le quote di mercato agli incumbent, poi la loro profittabilità.
“Non tutti i percorsi disruptive conducono al trionfo”
Spesso i disruptor costruiscono business models molto diversi da quelli degli incumbent, ed è questa una delle chiavi per poterli definire tali. Prendiamo il caso della medicina, scrive Christensen: per le diagnosi, un medico di medicina generale si basa su esperienza ed esami clinici. Insomma, grazie alle proprie competenze e alla pratica, ha una “soluzione”, per così dire, per tutto. Le nuove cliniche low cost che stanno entrando nel settore operano in maniera diversa: usano un business model “di processo, seguono protocolli standard per le diagnosi e trattano solo un numero piccolo ma crescente di patologie”. Tutte le innovazioni disruptive hanno successo? No. Non si è disruptive o meno sulla base del risultato che si è ottenuto. “Non tutti i percorsi disruptive conducono al trionfo”, sottolineano gli autori, e “non tutti i nuovi attori che ce l’hanno fatta sono disruptive”. Nel primo caso, il riferimento è ai molti player dell’Internet anni Novanta. Ricette per il successo non ce ne sono. “La [nostra] teoria dice poco su come affermarsi nel mercato in cui si entra, a parte giocarsi le proprie carte ed evitare una competizione testa a testa con incumbent dotati di migliori risorse”. Insomma, se qualcuno sapesse come si fa ad avere successo, non scriverebbe libri.
Infine, il mantra “disrupt or be disrupted” può portare fuori strada. Secondo gli autori, le società incumbent devono rispondere alla disruption nel caso si presenti, ma senza esagerare nella reazione smantellando linee di business ancora profittevoli. “Piuttosto, devono continuare a stringere relazioni con i clienti chiave” scrive Christensen, continuando a investire nell’innovazione tradizionale. In più, “devono creare una nuova divisione focalizzata solo sulle opportunità di crescita che arrivano dalla disruption. La nostra ricerca suggerisce che il successo di queste nuove imprese dipende in larga parte dal fatto di tenerle separate dal core business. Questo significa che per un certo periodo di tempo gli incumbent si troveranno a gestire due tipi di operazioni molto differenti”.
Qualche esempio di innovazione distruptive
Chiudiamo questa lunga disamina con alcuni esempi di innovazione disruptive. Ad esempio, Wikipedia, che ha mandato in pensione la versione cartacea dell’Enciclopedia Britannica nel 2012, allora leader di mercato. Con i suoi 1.000 dollari di costo, 120mila voci che per essere aggiornate richiedevano un anno o più, e 45 kg di peso, il confronto non ha retto. Inoltre, Wikipedia è scritta da editor volontari. Non ha la stessa accuratezza (e infatti l’Enciclopedia Britannica esiste ancora, ed è consultata da chi ha bisogno di informazioni di comprovata affidabilità), ma è sufficiente per la maggior parte degli scopi. Ed è consultata anche da chi prima non si sarebbe sognato di fare una ricerca in biblioteca, men che meno di investire in un’enciclopedia cartacea. Altro esempio (ma qui siamo lontani da bit) sono i treni ad alta velocità, che hanno mandato in pensione o ridotto di molto l’offerta di voli a corto raggio. Alcuni esempi: Milano-Roma, Madrid-Barcellona, Colonia-Francoforte. Non solo: ormai la competizione è serrata anche sulle tratte medie.