Puntare su un progetto concreto, condividere i risultati, contenere il rischio. Sono alcuni dei precetti della finanza islamica. Ma sono anche i cardini del crowdfunding. Ecco perché questa forma di finanziamento si sta ritagliando il suo spazio. Con un pilastro in più: niente interessi. Le risorse sono ancora limitate, ma l’ecosistema del crowdfunding musulmano si sta diversificando: dal più elementare reward based al social lending, con un occhio rivolto ai bitcoin.
La ricompensa è “halal”
Il reward based è il modello cui più spesso si pensa quando si nomina la parola crowdfunding. Un progetto viene presentato. Chi decide di finanziarlo non riceve un ritorno finanziario ma una “ricompensa”, proporzionata al proprio sostegno. La piattaforma incassa una commissione, consentita dalla Sharia.
Funziona così Lounchgood. La differenza (rispetto a Kickstarter, ad esempio) non sta nel meccanismo di raccolta quanto nel target: un pubblico musulmano per prodotti halal (cioè consentiti). La società ha sede negli Stati Uniti ma ha una platea globale, fatta di 26 mila utenti, 450 progetti finanziati in 38 Paesi con 4,7 milioni di dollari. Realtà molto simile, ma con numeri e geografia più contenuti, è la malese Mystartr. Nata nel 2012, incassa una commissione del 10% sui progetti che raggiungono l’obiettivo.
In Europa la scena più vivace è quella francese, soprattutto grazie ad Aoon. Il modello di finanziamento è sempre lo stesso: commissioni sul capitale raccolto. Con un’accortezza in più. Il gettone viene prelevato dalle campagne di arte, design, turismo, film, innovazione, tecnologia, divertimento e moda. Ma non per iniziative a scopo umanitario. Forse per questo Aoon, pur essendo Sharia compliant, preferisce definirsi “la prima piattaforma di crowdfunding etica”.
Il mercato che tenta di combinare le ricompense con l’Islam è ancora fragile. I flop – Fundamuslim, Islamica, Muslim Crowdfunding, Masjid Project Funder, Ummaland Fundraising, halalfounder – sono più numerosi dei casi di successo.
Equity e rischio
L’equity crowdfunding islamico non è diverso da quello occidentale. Gli investitori entrano nel capitale, non ricevono interessi ma condividono perdite e profitti. Su queste basi è nata Eureeca, piattaforma globale con focus sul Medio Oriente.
Anche giganti non islamici hanno fiutato l’affare. Lo scorso gennaio, Alchemiya Media (una sorta di Netflix halal) ha chiuso la prima campagna Sharia compiant su CrowdCube, uno dei leader mondiali dell’equity based. Anche The House Crowd ha base in Inghilterra. Fa affari nel mercato immobiliare e guarda con attenzione alla finanza islamica. Funziona così: tanti piccoli investitori finanziano una Spv (una società veicolo che nasce con un obiettivo specifico e muore a traguardo raggiunto). Nel caso di The House Crowd, gli obiettivi sono immobili. Acquistati, ristrutturati, rivenduti. Le Spv Sharia compliant non prevedono interessi: il ritorno è dato dalla distribuzione dei profitti, pari alla differenza tra prezzo di vendita e di acquisto.
Social lending e la startup islam della Silicon Valley
Cresce anche il social lending. Chi richiede fondi riceve denaro; l’intermediario guadagna con una commissione; il finanziatore non incassa interessi ma viene rimborsato con l’aggiunta di una quota dei profitti (se ce ne sono). Così funzionano la pachistana SeedOut, Iiwwa (con sede in Giordania) e Beehive (a Dubai).
Il mercato sta diventando interessante. E, per seguirlo, c’è una società che ha fatto il percorso inverso rispetto a quello ambìto da molte startup. Fondata da Matthew J. Martin, un americano convertito all’Islam, Blossom opera a San Francisco ma ha trasferito la propria sede in Indonesia.
Bitcoin, cosa dice la fatwa sui bitcoin
Blossom non è diversa da altre piattaforme di social lending. La novità sta nell’interesse riservato ai bitcoin.
Le valute digitali sono halal o haram (proibite)? Esiste una fatwa che equipara i bitcoin a ogni altra moneta: nessun divieto assoluto, a patto di evitare la speculazione. Se è bandito il carry trade (la pratica che gioca sui diversi tassi d’interesse monetari), allo stesso modo i bitcoin non possono essere acquistati per poi passare alla cassa. In linea con la Sharia devono essere impiegati per scambiare beni tangibili.
I bitcoin devono fare i conti anche con un altro problema (momentaneo?): la volatilità. La finanza islamica proibisce il rischio eccessivo. Quindi scoraggia le attività con escursione di prezzi troppo ampia. Il problema però non sussiste se gli importi sono contenuti e scambiati rapidamente. Ed è qui che si inserisce Blossom: la società utilizza i bitcoin più che come moneta di riferimento per la sottoscrizione di contratti, come veicolo per il trasferimento veloce e gratuito dei fondi raccolti. Una soluzione che supera i vincoli bancari e rispetta i precetti della Sharia.
Il modello Shekra
Da una parte ci sono reward based e social lending, il più delle volte con somme contenute. Dall’altra l’equity. Che, però, per ubbidire alla Sharia, limita il rischio e tende a puntare su imprese già mature. E in mezzo? L’egiziana Shekra ha provato ad accorciare le distanze, sempre con il crowdfunding. Se dovesse avere un’etichetta, sarebbe quella di equity based. Ma Shekra fa un passo in più.
Anche le giovani imprese musulmane che vogliono crescere hanno bisogno di liquidità. Ma non possono accedere ai prestiti bancari con interessi, né avere il sostegno dei venture capital se il rischio viene bollato come eccessivo. Ecco allora il modello Shekra: la società seleziona le startup, fa da mentor, incubatore, e apre a una rete di investitori (disposti sia a prestare che a investire). In questo modo, le startup ricevono risorse fresche da più soggetti, e questi ultimi riducono il rischio perché puntano piccole quote in società diverse.
Il cammino è appena iniziato. Resta da capire se l’accelerazione arriverà dai nuovi protagonisti dei Paesi a maggioranza musulmana o se, invece, saranno le più strutturate piattaforme occidentali a intercettare la domanda di finanza islamica in crowd.
Paolo Fiore
@paolofiore