Tuttoscuola elabora il dossier sulla dispersione scolastica: non completare gli studi è sinonimo di disoccupazione. Nel rapporto OCSE Equity and Quality in Education alcune raccomandazioni
La dispersione scolastica ci costa cara. Non e’ un ragionamento che amo ma dal momento che le scelte della politica fanno spesso i conti con i calcoli della ragioneria di Stato, forse val la pena riflettere su un dato: i 2 milioni e 900 mila studenti partiti e mai arrivati al diploma negli ultimi quindici anni nella scuola secondaria statale, hanno un costo sociale di 32,6 miliardi di euro.
La fotografia che ci fornisce il dossier sulla dispersione nella scuola secondaria superiore, elaborato dalla rivista “Tuttoscuola” non lascia margini a commenti. L’Italia deve invertire al più presto tendenza. Negli ultimi 15 anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi. Rappresentano il 31,9% dei circa 9 milioni di studenti che hanno iniziato in questi tre lustri le superiori nella scuola statale, e di questi è come se l’intera popolazione scolastica di Piemonte, Lombardia e Veneto non ce l’abbia fatta. Praticamente uno su tre si è “disperso”, come si dice nel gergo sociologico. E dispersione fa rima con disoccupazione. Secondo l’Istat sono 2,2 milioni i ragazzi Neet, compresi tra i 15 e i 29 anni, che non studiano, non lavorano, non fanno formazione o apprendistato.
Il dossier di Tuttoscuola ci pone di fronte ad un’equazione fondamentale: chi non va a scuola, chi lasciamo fuori dalla classe, finisce in quella percentuale di disoccupati che sembra gonfiarsi sempre più.
Un danno non solo umano ma anche economico: l’incidenza dei Neet in Italia è significativamente più alta rispetto ai principali paesi europei quali la Germania (9,7 per cento), la Francia (14,5 per cento) ed il Regno Unito (15,5 per cento) e più simile a quella della Spagna (21,1 per cento). Secondo Confindustria il costo sociale di questa dispersione e’ stimabile in 32,6 miliardi di euro l’anno, e se questi giovani inattivi entrassero nel sistema produttivo nazionale si guadagnerebbero più di 2 punti di Pil.
Il corso di studi “interruptus” comporta che la costosa organizzazione del servizio per quei ragazzi si riveli sostanzialmente inutile. O meglio l’investimento che è stato sostenuto ha avuto un basso ritorno, perché presupponeva il completamento del corso e il conseguimento di un titolo attestante determinate abilità e competenze, obiettivo non raggiunto. E il disagio sociale che ne consegue scatena effetti collaterali, dal livello di criminalità ai costi del welfare (sussidi di disoccupazione, etc).
Ma quali sono le soluzioni, le proposte da mettere in campo? Nel rapporto OCSE Equity and Quality in Education (2012), citato anche dall’allora sottosegretario Marco Rossi Doria nella audizione svoltasi presso la VII Commissione della Camera il 22 gennaio 2014, sono formulate cinque raccomandazioni, fondate su evidenze empiriche, che l’Organizzazione rivolge ai Paesi membri.
La prima – richiamata anche nel dossier – invita letteralmente a eliminare la ripetenze, suggerendo la “promozione automatica” o fornendo un tempestivo supporto agli alunni per le materie o i moduli più difficili per tutto il periodo della scolarità obbligatoria. L’OCSE considera fondamentale diffondere nella scuola e nella società la consapevolezza dei costi economici e sociali che le ripetenze e l’abbandono del sistema educativo comportano. In l’Italia questa raccomandazione potrebbe esser accolta, a giudizio di Tuttoscuola, nella forma di una vasta campagna di carattere socio-culturale accompagnata da interventi di formazione in servizio dei docenti.
Un’altra sperimentazione potrebbe essere utilmente messa allo studio: quella di utilizzare l’ultimo anno di scuola secondaria superiore come ‘anno ponte’ verso le attività successive, attraverso la riduzione delle prove di esame di maturità a due o tre discipline: la scelta di tali discipline dovrebbe vincolare la scelta degli studi successivi (corso di laurea o ITS o altro), con i quali esse dovrebbero essere coerenti, e potrebbe comportare, d’intesa con l’università o altri soggetti formativi e anche lavorativi, il riconoscimento di crediti (CFU per l’università).
I vantaggi di una soluzione di questo genere sarebbero molteplici: l’abbreviazione della durata degli studi universitari, una minore mortalità nel primo anno di università (dovuta alla maggiore coerenza tra prove di maturità e tipologia di corso universitario ad esse collegato), un impiego più flessibile dei docenti del quinto anno.
Le soluzioni da mettere in campo sono diverse e devono vedere protagonisti non solo gli istituti professionali che continuano a registrare il più alto tasso di dispersione ma anche i licei che hanno la loro percentuale di abbandoni.