In questa rubrica raccontiamo storie di fallimenti che si sono poi rivelati successi e storie di inciampi e cadute da cui apprendere una buona lezione. Ma cosa possiamo apprendere da (apparenti) successi che poi si sono rivelati un clamoroso flop a causa del comportamento scorretto adottato dai vertici aziendali?
Chi è Elizabeth Holmes
Siamo nel 2003, Elizabeth Holmes ha 19 anni e frequenta la Stanford University. Ragazza prodigio, già da bambina sognava di fare grandi cose che l’avrebbero resa, a suo dire, miliardaria. Non amava particolarmente perdere. Tanto che quando, di rado, accadeva, dava in escandescenza. Come quella volta che sfondò la zanzariera di casa perché aveva perso una partita a Monopoli.
Il suo sogno era diventare il prossimo Steve Jobs al punto da vestirsi come lui, con maglioni scuri a collo alto. Da cambiare tono della voce: da acuta e tipicamente femminile, a bassa e profonda tipicamente maschile. Arrivò anche ad arredare il suo ufficio con le poltrone Le Corbusie preferite da Jobs. E ad adottare un suo stesso modus operandi, lo «stealth mode». Ovvero lavorare in totale segretezza affinché nessuno sappia esattamente cosa si sta cercando di realizzare.
Come nelle migliori storie di startupper di successo, dorme 4 ore per notte e abbandona l’università per inseguire il suo sogno: realizzare l’iPod dell’assistenza sanitaria. Voleva rendere piccoli e portatili gli strumenti diagnostici per gli esami clinici più comuni. E per assicurarsi che avessero una interfaccia utente e un design simili all’iPod assume dipendenti della Apple. Grazie a una tecnologia chiamata Edison sarebbe stato possibile fare un esame del sangue a casa, con poche gocce di sangue a un costo inferiore a tre dollari.
Da una buona idea a una buona impresa
Perché Holmes ha scelto di fondare, nel 2003, una startup proprio in questo segmento di mercato che vale 75 miliari di dollari ed è dominato da pochi colossi? Lo storytelling racconta che è a causa della sua paura degli aghi. Ma l’idea le venne probabilmente dopo aver frequentato il Genome Institute di Singapore. Aveva compreso un bisogno reale.
Ed è la ragione per la quale, avendo la soluzione proposta un potenziale enorme, ha attratto l’interesse di investitori e aziende. Il fondatore di Oracle, il magnate dei media Rupert Murdoch, i proprietari di Walmart credono in lei e nella sua rivoluzionaria tecnologia tanto da investire milioni di dollari. Nel board della startup finiscono gli ex segretari di Stato USA Henry Kissinger e George Shultz e il segretario alla Difesa James Mattis. Nel 2014 il valore di Theranos è stimato in nove miliardi di dollari.
A trent’anni, Elizabeth è ormai una stella. La rivista americana Time la inserisce tra le cento personalità più influenti del mondo. L’allora presidente Obama la nomina «ambasciatore imprenditoriale globale». Frequenta la famiglia Clinton e finanzia la campagna di Hillary.
Riceve premi prestigiosi e, pur senza un titolo di studio universitario, entra nel board of fellows della Harvard Medical School. La rivista Forbes nello stesso anno stima il suo patrimonio in 4,5 miliardi di dollari e la inserisce al 121° posto tra le persone più ricche d’America. Vince vari premi tra cui il Women of the Year Award. Holmes è acclamata come l’icona di una nuova generazione di imprenditori visionari, in un’epoca in cui tutti erano alla ricerca del nuovo Steve Jobs. Bellissima storia. Ma come finisce?
Dal successo alla truffa
Elizabeth registrò la società con il nome Real-Time Cures. Ma un errore di stampa trasformò, per uno strano gioco del destino, la ragione sociale in Real-Time Curses (Maledizioni in Tempo Reale). Solo qualche anno dopo la società cambierà nome in Theranos.
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Nel 2015 un giornalista del Wall Street Journal, John Carreyrou, entra in contatto con un ex dipendente di Theranos. E scopre che tutto è meraviglioso, l’unico problema è che la macchina non funzionava. I test erano inaffidabili e la tecnologia Edison non era mai stata validata. E per coprire questa falla, i test che Theranos proponeva erano eseguiti da tecnici di laboratorio in carne e ossa, con metodi ed equipaggiamento perlopiù tradizionali, comprese le classiche siringhe. In alcuni casi i risultati delle analisi erano sbagliati al punto da mettere in pericolo la salute dei pazienti.
Health is a basic human right, for every single person. #HumanRightsDay pic.twitter.com/RNV8jqYwEf
— Elizabeth Holmes (@eholmes2003) December 11, 2015
Se, in una fase iniziale, l’azienda si difende definendo le informazioni riportate dal Journal «errate dal punto di vista fattuale e scientifico». A seguito di una serie di ispezioni da parte delle autorità sanitarie che portano a invalidare oltre un milione di test, Theranos è costretta a chiudere gran parte dei propri laboratori. E il suo valore crollò da miliardi di dollari a zero nel giro di soli dodici mesi. Il fallimento sarà definitivamente dichiarato nel 2018. Holmes e l’ex presidente della società, Ramesh Balwani, vengono accusati di numerosi capi di imputazione. Il processo, iniziato nel marzo 2021, si concluderà con una condanna a 11 anni e 3 mesi di carcere per la Steve Jobs dell’innovazione sanitaria.
Inganni e ambizione sfrenata
La storia di Theranos è un simbolo di come anche, ma non solo, l’ambizione sfrenata e l’inganno possano portare al fallimento di un’impresa. Come ricorda Warren Baffett, è evitando di commettere gli stessi errori degli altri che possiamo raggiungere con più serenità il successo. Che errori ha commesso?
La credibilità di Theranos è attribuibile al carisma della sua founder e al suo livello di fiducia in sé stessa e nella sua idea da rasentare quella che in psicologia si chiama «sindrome di pollyanna». Una eccessiva dose di ottimismo che si rivela disfunzionale perché non tiene conto della realtà e che porta a prendere decisioni stupide e rischiose.
La sua credibilità è dovuta anche alle connessioni personali di Holmes e alla capacità di reclutare capitali grazie al supporto di persone influenti tra cui Henry Kissinger, George Shultz, James Mattis e Betsy DeVos, Larry Pages. Ma bastano le relazioni e i soldi per far funzionare un prodotto? La risposta è no. Il denaro non garantisce il successo, soprattutto quando si manca di una solida base di utenti, di un prodotto valido, o si continua ad operare in perdita.
Gli investitori spesso speculano sul futuro dell’idea, aumentandone in modo prematuro il valore. E ne sono consapevoli. Alla domanda di un giornalista «E’ disposto ad ammettere i suoi errori?», il venture capitalist Tim Draper ha risposto «Assolutamente no perché sapevamo fosse un azzardo». La bontà di una startup non andrebbe misurata solo dalla capacità di raccogliere fondi perché anche gli investitori possono sbagliare. Che lo ammettano pubblicamente o meno.
Sulla sua scrivania, Holmes aveva in bella mostra un fermacarte di metallo lungo circa venti centimetri. Sul fermacarte era incisa la frase: «Cosa cercheresti di fare se avessi la certezza di non fallire?» Cosa ha effettivamente fatto?
Fake it till you make it
Holmes ha sfruttato un mantra della Silicon Valley che recita così «Fake it till you make it»: fingi finché non riesci a farlo. Molte aziende tecnologiche, la stessa Apple all’origine o più recentemente Google, presentano un prodotto non ancora del tutto pronto, confidando che sarà migliorato anche grazie ai feedback e alle lamentele dei primi utenti. Ma non è detto che il prodotto finito arriverà effettivamente sul mercato.
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All’inizio degli anni Ottanta fu coniato il termine «vaporware» per descrivere proprio i nuovi prodotti informatici annunciati con una certa solennità e mai materializzatisi sul mercato. In questo mantra le aspettative disattese dei consumatori non vengono prese in considerazione o al massimo sono considerate un danno minore.
L’obiettivo principale è quello di promuovere il proprio prodotto per procacciarsi fondi, arrivando a nascondere i reali progressi compiuti e sperando che alla fine la realtà sia all’altezza delle aspettative di tutti, investitori in primis.
Il mantra di Mark Zuckerberg
Un mantra che si affianca ad un altro, pare coniato da Zuckerberg, che recita: «Move fast and Break things». Muoviti velocemente e rompi le cose è ancora oggi considerato un approccio (irresponsabile) adottato in Silicon Valley e in tutto il settore tecnologico a livello globale. Rompere significa fare errori. Rompere significa immettere sul mercato prodotti poco testati o che presentano problemi già identificati e potenzialmente pericolosi.
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Senza pensare alle conseguenze sulla vita e la salute delle persone. Il giornalista Carreyrou nella sua inchiesta evidenzierà la fretta di Elizabeth nel presentare un prodotto da utilizzare con i pazienti malati di cancro. I test di sicurezza, eseguiti per assicurarsi che i pazienti non venissero folgorati dalla corrente elettrica, erano davvero minimi. Ma tutti dovevano avere l’impressione che il prodotto fosse finito e non un working in progress ancora difettoso.
Le previsioni della mazza da hockey
Mostrare previsioni sbagliate e convincersi che in futuro si sarebbero realizzate è un’altra tecnica, tollerata nell’industria tecnologica, e utilizzata da Holmes con consapevolezza. Una pratica più comune di quanto si possa pensare. Tutti i business plan mostrano un momento di stagnazione iniziale e poi una impennata delle previsioni dei ricavi e fatturati che i venture capitalist chiamo le previsioni della mazza da hockey.
«Ho esaminato centinaia di proiezioni finanziarie di startup nel corso della mia carriera – dichiara Patrick Henry investitore di lungo corso – e tutte mostrano una crescita delle entrate a forma di mazza da hockey. E raramente mi viene data una ragione sottostante per cui le entrate automaticamente assumono questa forma in quel momento specifico. Potrebbero anche scrivere sulla diapositiva: Il miracolo accade qui».
Nessuno degli investitori, delle aziende, dei giornalisti e anche dei dipendenti che l’hanno sostenuta si sono mai domandati se si trattasse di un miracolo o di una solida realtà. Dopo la sentenza di condanna, Holmes ha dichiarato: «Ho fatto così tanti errori e c’erano così tante cose che non sapevo e non capivo, e ho la sensazione che quando sbagli, è come se lo interiorizzi davvero in modo profondo».
In Silicon Valley il mito del «fail big fast» – fallisci in grande e rapidamente – è parte integrante dell’esperienza stessa del creare startup. Che sia stato il mantra che ha seguito inconsapevolmente fin dall’inizio?
Le 3 regole d’oro
La prima regola è non seguire i mantra come fossero un dogma. Occorre avere la capacità di discernere la loro veridicità e il possibile impatto. Va bene automotivarsi ma bisogna farlo con sano spirito critico.
La seconda regola è avere chiaro che la parola “startup” è sinonimo di dedizione, fatica, frustrazione, fallimento, reiterazione, resistenza ma anche di coraggio di capire quando lasciare andare l’idea. Serve una buona dose di ottimismo realistico.
La terza regola è darsi delle spiegazioni solide sul perché le entrate accelereranno in un momento specifico della propria timeline. Domandarsi quali sono i fattori sottostanti al mercato di riferimento, ai cambiamenti tecnologici o altre variabili ritenute significative in relazione al proprio business che possono spiegare il miracolo. Non saperlo è un grave errore, anche di credibilità.
E voi che lezione avete appreso? Se volete raccontarmi la vostra storia di fallimenti e lezioni apprese, scrivetemi qui: redazione -chiocciola – startupitalia.eu