A neppure un anno dal lancio il fondo per il trasferimento tecnologico della Fondazione Enea Tech cambia obiettivi, perimetro, interlocutori. Un’evoluzione inaspettata che va oltre mission e nome, nonostante progetti e accordi quadro in stato avanzato su deep tech, green energy, healthcare, IT. Le perplessità della filiera dell’innovazione.
Enea Tech è diventata da pochi giorni Enea BioMedical Tech. La modifica è contenuta nel recente decreto Sostegni bis. Cambia il nome, ma anche la sostanza. Nell’articolato è previsto un forte accento su ricerca e riconversione del settore biomedicale, cui andranno almeno 200 dei 500 milioni di dotazione iniziale.
Diversamente da quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, la rivoluzione ha colto alla sprovvista la stessa fondazione, come ha potuto appurare StartupItalia. “La notizia ci ha colto di sorpresa” trapela dall’interno di Enea Tech. Anche il mondo delle imprese, soprattutto quelle coinvolte nella prima call lanciata qualche mese fa, è in fermento.
Ma cosa sta accadendo? Abbiamo sentito alcuni dei protagonisti e stakeholder di questa vicenda: con l’obiettivo di comprendere cosa stia accadendo davvero, quali sono i timori di chi nell’ultimo anno ha lavorato alla crescita di Enea Tech e quali siano gli obiettivi del Governo guidato da Mario Draghi.
Il contesto
Creata nel maggio 2020 grazie al contributo dell’allora Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Cinque Stelle), Enea Tech parte con mezzo miliardo di euro e una promessa: portare l’Italia nel futuro. Le operazioni cominciano lo scorso gennaio. Al 16 febbraio risale la prima call for ideas: risponderanno circa 1.000 startup. Sono già 25 quelle arrivate in fondo al percorso, fino alla fase di due diligence, per un investimento stimato che avrebbe potuto aggirarsi attorno ai venti milioni di euro. I condizionali sono dovuti al fatto che è tutto fermo. In Largo Thaon de Revel, sede romana della Fondazione, si respira aria di incredulità. “Siamo in standby, nonostante un portfolio di progetti in fase avanzata e accordi quadro che coprono ognuna delle quattro macroaree di attività: deep tech, green energy, healthcare, It” prosegue la fonte.
Tra i partner ci sono i politecnici della Penisola, ma anche importanti aziende (da Eni a Enel, fino a ST Microelectronics) e agenzie europee (ad esempio l’ESA, European Space Agency).
Un po’ di storia
Facciamo un passo indietro. Enea è una realtà la cui tradizione si perde nei decenni. La storia comincia nel 1952, con il nome di Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari (CNRN). Alterne le vicende dal punto di vista gestionale, soprattutto dopo il referendum che, nel 1987, segna l’abbandono del nucleare in Italia, e priva l’apparato della principale raison d’être.
Non sprecarne il potenziale concentrandolo, al contempo, su aspetti strategici per il futuro del Paese: questo il rebus che si scontra con una congiuntura segnata da una profonda transizione tecnologica, sociale, politica e geopolitica. Le priorità non sono chiare alle cancellerie di tutto il mondo, e Roma non fa eccezione.
Il crollo del muro di Berlino, la pax americana, il processo di integrazione europea paiono il preludio a un’era di prosperità, in cui gli Stati perdono rilievo a favore di entità sovragovernative in grado di garantire benessere: la stessa era che spinge il politologo Francis Fukuyama a parlare, con ottimismo che sfocerà in una celebre quanto parodiata previsione, di “fine della storia”.
L’illusione dura davvero poco. L’avvento di internet, il terrorismo, la crisi economica, le minacce informatiche, le guerre batteriologiche e, da ultimo, il riscaldamento globale, modificano lo spartito.
Con l’11 settembre si schiude un’epoca di instabilità in cui il ruolo della scienza, ancora una volta e dopo le esperienze novecentesche, diventa centrale nelle politiche di potenza. Il mondo multipolare, al posto di un equilibrio che pareva raggiunto.
La realtà, come è apparso evidente nella diplomazia vaccinale di questi mesi, è che quando il gioco si fa duro, ognuno lavora per sé. Chiamiamolo pure, con un termine alla moda, sovranismo tecnologico, l’opposto dell’utopia della globalizzazione, basata su produzione just in time e logistica integrata su scala mondiale.
Trovare il bandolo della matassa
Trovare il bandolo della matassa è difficile.
I riflessi di questa difficoltà a interpretare il futuro si proiettano sul sistema della ricerca italiana, e, naturalmente, anche sull’Enea. E proprio sulle priorità si consuma il duro confronto di inizio millennio tra l’allora presidente Carlo Rubbia e il consiglio di amministrazione, duello che apre la porta a una lunga stagione di commissariamenti. Alle turbolenze internazionali si aggiungono le boutade della politica: nel 2008 col quarto governo Berlusconi si inizia persino a parlare di un possibile ritorno al nucleare, capitolo definitivamente chiuso in seguito al disastro di Fukushima del 2011. I commissariamenti si interrompono nel 2016 con la presidenza di Federico Testa.
Ripercorrere quegli anni frastagliati aiuta a comprendere in che tipo di partita siano inseriti l’ente e i suoi corollari, visti come strategici da Palazzo Chigi. Anche le questioni onomastiche, per la verità, non sono nuove. Il celebre acronimo del 1982 (comitato nazionale per l’ “Energia Atomica ed Energie Alternative”) è rimasto. Ma la denominazione estesa oggi recita “Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile”. Un “laboratorio” ad altissima specializzazione, un cannocchiale puntato sul futuro i cui tecnici studiano tecnologie che vanno dalla protonterapia per la cura del cancro alla fusione nucleare. Da qui la scelta di Conte (era il maggio 2020) di affidarle il prezioso “Fondo per il trasferimento” collegato alla neocostituita Fondazione Enea Tech. Un tesoretto da spendere “con particolare riferimento alle startup e alle PMI innovative”, si legge nel testo varato lo scorso anno. Il clima era quello della fine del primo lockdown: ancora una volta, un misto di urgenza e confusione.
Poco si diceva sugli ambiti di indirizzo. “Realizzazione di progetti di innovazione e spin-off, nonché attività di supporto alla crescita delle start-up e PMI ad alto potenziale innovativo”. Definizioni generiche, ampie. “Il nostro compito, per così dire, era quello di andare nei laboratori e seguire i profondità i filoni di interesse strategico per il Paese”. Mantenendo, al contempo, la capacità di investire in maniera agile.
Cosa cambia
Il lavoro, dopo una fase di assestamento, era abbastanza avviato. A cambiare le carte in tavola il decreto Sostegni 2 dei giorni scorsi. E un articolo, il 31, intitolato “Disposizione in materia di ricerca e sviluppo di vaccini e farmaci”.
In sostanza, il governo ha deciso di puntare sul biotech e per farlo ha scelto, come l’anno scorso, una realtà su cui era sicuro di poter fare affidamento: Enea, appunto. Già Enea Tech era dotata di un proprio verticale sull’Healthcare: l’idea di Palazzo Chigi era quella di puntare alto su uno dei settori in cui l’Italia è potenzialmente più forte, ma non ancora in grado di competere ad armi pari con le altre potenze: l’esempio da seguire è quello di BioNTech, l’azienda tedesca (fondata da immigrati turchi) capace di produrre il primo vaccino Covid assieme a Pfizer.
Tra le altre cose, si legge nell’articolo, la neonata fondazione Enea Biomedical Tech sarà impegnata “nella realizzazione di programma di sviluppo del settore biomedicale e della telemedicina, con particolare riferimento a quelli connessi al rafforzamento del sistema nazionale di produzione di apparecchiature e dispositivi medicali, nonché tecnologie e servizi finalizzati alla prevenzione delle emergenze sanitarie”. Il ricordo della mancanza di mascherine, ventilatori e dei vaccini (persino di quelli antinfluenzali, ad esempio in Lombardia) evidentemente non è ancora sfumato.
Quali sono i timori?
Quali sono, allora, i timori? Quello che difetta, in un decreto che può avere una propria logica, è il metodo. Le norme transitorie, quelle che vanno a regolare le situazioni già in essere. Le indicazioni per il passaggio di consegne, visto che nella neonata fondazione cambierà anche la governance.
“Togliere soldi alle startup non è una buona cosa di per sé, anche non possiamo escludere che l’esecutivo le reintroduca in una nuova versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – afferma Angelo Coletta, presidente di InnovUp – Ma cosa faranno le aziende che avevano partecipato alla call di Enea Tech ed erano arrivate in fondo? Al momento sono rimaste prive di indicazioni. Parliamo di realtà che hanno fatto i propri conti sulla base di un percorso intrapreso e condotto seriamente, e si sono viste crollare il terreno sotto i piedi quando erano sulla soglia del comitato di investimento”
“Nel piano nazionale di ripresa e resilienza ci sono solo 700 milioni per startup su oltre 200 miliardi totali – rimarca Coletta – Per carità, il documento probabilmente verrà rivisto e nulla vieta che le cifre cambino, magari aggiungendo risorse in maniera mirata ai singoli capitoli. Ma è ora di puntare davvero sull’innovazione, altrimenti è inutile lamentarsi. Siamo in ritardo di quindici anni: di questo passo continueremo a inseguire i nostri vicini, a partire da quelli d’Oltralpe”.
Biotech e e startup, due scommesse
Evitare un altro caso Reithera (non solo l’intervento della Corte dei Conti, ma, soprattutto, il colpevole ritardo con cui un paese all’avanguardia nel farmaceutico ha creduto nel vaccino) è una priorità. Come, d’altra parte, lo è non dimenticarsi delle startup. “Se negli ultimi trent’anni abbiamo perso competitività non è per il cuneo fiscale, che tutto sommato non è troppo differente da quello di altri paesi europei: il problema è che si è arrestata l’innovazione” conclude Coletta.
L’ultima parola sulla vicenda non è ancora scritta. Vanno fornite, in tempi brevi, risposte a chi si è già messo in gioco. Non si può correre il rischio di perdere la fiducia di chi nello Stato e nella ripresa ha creduto, e di questi valori può farsi ambasciatore. Così come, pur senza distribuirle a pioggia, non si può correre il rischio di togliere risorse all’innovazione. Soprattutto in un paese in cui, se non è lo Stato a intervenire, la propensione al rischio da parte dei privati è ancora, davvero, troppo bassa.