L’amministratore delegato di Digital Magics racconta la sua strategia per parlare alle imprese. Dai linguaggi all’exit, le difficoltà dell’open innovation in Italia
«Il tessuto industriale italiano è fatto soprattutto di piccole e medie imprese. Parlare con loro non è semplice. Per questo gli operatori di settore devono fare uno sforzo per portare la conversazione su un terreno comune. Altrimenti l’ecosistema delle startup parla a se stesso, diventa un circuito chiuso». Layla Pavone è tra gli attori della digital economy in Italia che più si stanno sforzando di far dialogare imprese e startup. Amministratore delegato di Digital Magics, Pavone ha impresso fortemente alla società la spinta verso quello che chiamiamo open innovation. Innovazione aperta. Quel terreno di incontro tra nuova imprenditoria digitale e impresa classica che in molti sperano possa innescare un circolo virtuoso di partnership e acquisizioni. Non un obiettivo facile. In Italia, sostengono in molti, non esiste un solo ecosistema. Ma molti ecosistemi «locali», regionali, che ricalcano la caratteristica italiana dei distretti industriali. Digital Magics, società fondata nel 2004 da Enrico Gasperini e Alberto Fioravanti (diventata incubatore nel 2008) è presente in sei regioni d’Italia. «Parliamo quotidianamente con gli imprenditori in incontri one to one, la nostra missione è arrivare anche alle piccolo e medie imprese».
Qual è la difficoltà principale che incontrate?
Come ho avuto modo di dire in occasioni pubbliche, è che il mondo delle startup viene percepito distante da loro, dai loro problemi, dal loro linguaggio. Noi ci sforziamo ogni volta di portare aziende e startup su un terreno comune di conversazione. Altrimenti rischiamo una babele di linguaggi.
Un esempio?
Se vogliamo ragionare con un imprenditore brianzolo sui temi dell’innovazione e di quanto possa essere importate farlo per affrontare le sfide del mercato, dobbiamo spiegare che una startup può lavorare con gli stessi parametri. Non è una cosa immediata. Sembra una cosa da poco conto ma l’esperienza mi ha portato a capire che non è così.
E’ mai capitato?
No perché sappiamo bene di non dover incorrere in questo rischio. Non quello “semantico” almeno. Sarebbe assurdo parlare ad un’azienda media italiana di premoney o unicorn. La vera difficoltà è far capire alle aziende come l’innovazione può far bene, caso per caso. Le azienda deve fare un passo avanti verso la richiesta di innovazione. Ma bisogna trovare dei modi, dei linguaggi per farlo. Non certo gli slang.
Voi come fate?
Stando coi piedi per terra. Non necessariamente a una Pmi devi far capire che deve fare corporate venture capital. Immagina la scena: ti guarderebbe come un marziano! Ma devi spiegare che una startup può lavorare su una linea di prodotto particolare o un tipo di servizio e allora puoi sperare che un’azienda si interessi a farci del business insieme o addirittura ad un’acquisizione.
E questa strategia quanti accordi vi ha garantito finora?
Quello tra Foodscovery e Il Fatto. O quella con Bricoman, quella con Euro Engineering. Ma il punto è che mi piacerebbe arrivare a dialogare con imprese anche più piccole. Sono loro l’ossatura dell’economia italiana.
Alla fine pare che piccolo non sia più bello, e che questo modello abbia portato più danni che vantaggi all’Italia.
Io sono stra convinta invece che questa sia la tipicità del nostro territorio e con quelli dobbiamo confrontarci. I distretti industriali sono un tesoro che può riservarci ancora molto. Una startup pugliese non deve trasferirsi a Milano, non necessariamente, perché in Puglia c’è un ecosistema d’impresa locale e possono sviluppare lì il proprio prodotto. Sarei molto felice se una startup pugliese fosse capace di trovare il suo alter ego più maturo nella stessa regione. Questo è un acceleratore naturale per le startup. I che non vuol dire non internazionalizzare, perché magari queste aziende fanno l’80% del fatturato in export e vanno direttamente sui mercati internazionali. E poi, quale imprenditore non è felice di essere aiutato da e aiutare una startup del proprio territorio? Può sembrare banale, ma non lo è affatto oggi in Italia.
Un cambio di prospettiva netto rispetto a quello a cui pensiamo quando parliamo di startup, non crede?
Noi vogliamo ribaltare il punto di vista classico. Se tutti pensiamo all’exit va benissimo, ma quante delle 6mila startup la faranno?Pochissime. Ma l’exit non l’unica strada possibile. Come l’open innovation non può esserne considerata un’alternativa, ma una strada possibile insieme alle altre.