«Le scuole superiori che ho frequentato sono state come un aeroporto: ho visto tutte le destinazioni possibili». Michela Andreolli è nata a Milano e cresciuta a Pero – «dove alla radio si dice che c’è sempre coda» – e in questa nuova puntata della rubrica “Italiani dell’altro mondo” ci ha raccontato di come un ex dipendente di Google a Dublino ha deciso di lanciare una startup per digitalizzare le PMI. Prima di fondarla, però, ha viaggiato parecchio, risalendo ad esempio un tratto della East Coast degli Stati Uniti per intercettare potenziali investitori. «Spero che Arke diventi il nuovo unicorno italiano».
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Quando viaggiare fa la differenza
Il profilo di Andreolli è quello di una 26enne abituata al confronto con l’estero fin dalle superiori. «Avevo vinto una borsa di studio al Collegio San Carlo di Milano e ho preso parte a un progetto innovativo: un mix di indirizzi tra classico e scientifico, in quattro anni al posto che cinque». Il tutto con più lingue da padroneggiare. «C’erano prof stellari da tutto il mondo. Quella di storia veniva dal Sudafrica. Dante invece ci veniva spiegato in più lingue. Per quanto riguarda i viaggi di istruzione sono stata in America e in Sudafrica».
In origine il suo sogno non era certo quello di diventare imprenditrice. L’impatto con l’estero e le lingue l’ha tuttavia influenzata, rendendola consapevole che la sua strada avrebbe potuto essere un po’ ovunque. Studi in ingegneria gestionale in triennale, ha lavorato nel frattempo come hostess agli eventi e in un magazzino («l’esperienza peggiore»). Avete presente poi quando vi dicono che non è saggio spedire curriculum random? Ecco, c’è sempre l’eccezione, che in questo caso le ha aperto le porte di Amazon.
«Una notte presa dalla disperazione ho mandato 80 curriculum a varie aziende, tra cui anche Amazon in Italia. Non ci speravo, ma il recruiter mi ha chiamato. Il loro stage iniziava a febbraio, proprio quando c’era la sessione d’esame». Lo ricorda come un «mese da incubo», ma comunque formativo. «Lavoravo nel team di Kindle, come vendor manager: aiutavo a gestire le relazioni con gli editori italiani».
Come dicevamo, però, Michela Andreolli ha sempre tenuto il passaporto a portata di mano. «Quando avevo 18 anni sono andata in Indonesia per insegnare inglese ai bambini. In un anno normale stavo via mesi da sola». Prima ancora di diventare imprenditrice è stato questo suo tratto da globetrotter a delinearne il carattere. «Ho letto di recente un’analisi interessante: mostrava i percorsi di tutti i founder di successo e la percentuale di persone passate dalla Big Tech era quasi irrilevante. Quello che hanno in comune è invece l’essersi trasferiti all’estero».
La via verso Arke
Arke, su cui torniamo tra un attimo, è una startup italiana perché Michela Andreolli ha deciso di tornare dopo aver trascorso anni tra Berlino e Dublino. Nella capitale tedesca ha frequentato un master per poi iniziare in SAP, una delle più importanti società di software europee. «Stavo in un team piccolo, impegnato a strutturare operations di team sales di tutta l’area EMEA. Il manager mi dava tante responsabilità: digitalizzare i processi interni è stato bellissimo». Nel frattempo mica è rimasta ferma: il calendario tipo prevedeva un periodo in Asia a dicembre e in America d’estate. «Per un po’ ho lavorato in full remore per Kry. Stavo in Grecia».
Ma Google quando è arrivata? «Il mio sogno era sempre stato andare a lavorare a New York. Così ho mandato application per Google. Un giorno, era il 2022, mi arriva l’email “Hello from Google”. Ma la meta era Dublino, dove sono andata a lavorare sotto il dipartimento Google Ads». Se è vero che un sacco di imprenditori hanno passato parte della propria carriera in Big Tech, viste un po’ come una cantera di talenti, la storia di Andreolli ci consegna una lettura differente.
«All’interno di queste mega aziende, per quanto meravigliose a livello di benefit, sei un numero. Sono ottimi posti, in cui impari a vedere come un’impresa deve operare. Ma non metti le mani in pasta». Così nel 2023 ha deciso di licenziarsi da Google, raccontando il tutto dal proprio profilo TikTok (un trend che abbiamo imparato a conoscere, soprattutto all’estero).
@michelaandreolli Nell’ultimo anno la domanda più difficile a cui ho dovuto rispondere (costantemente) è stata: ma quindi adesso cosa fai? Per quanto sia impossibile raccontare tutto quello che è successo, questo video forse un po’ una risposta riesce a darla ☀️ non sono mai stata così felice di avere avuto il coraggio di credere in me stessa, and I know it’s just the beginning 💕
♬ original sound – Michi | @michelaandreolli
Philadelphia-Boston: a caccia di investitori
Era arrivato il momento di lavorare su un progetto di startup. «Dopo Google ho fatto viaggio da Philadelphia a Boston per incontrare investitori, e a New York ho conosciuto il team di Exor. Ho fatto un pitch e mi hanno offerto di lavorare per loro. Ma non volevo tornare in Italia, così ho partecipato al venture builder a Berlino. Alla fine mi ha convinta a rientrare Diyala D’Aveni (Head of Vento, ndr)».
Ha lavorato su Arke per diversi mesi in fase stealth, modalità che permette di mettersi a testa bassa senza distrazioni. «Abbiamo parlato con quasi 200 aziende del nostro target e varato circa 15 idee diverse. Alla fine ne è nato un progetto, Arke, di sistema operativo per le attività manifatturiere, un ERP di produzione».
Sognando l’unicorno
Il team, con sede a Milano, è composto da cinque persone con già un round incassato (la cifra verrà comunicata nei prossimi mesi). Si attende ora il lancio del prodotto. «Puntiamo ad andare online entro la fine del Q1 del 2025». Una riflessione sull’ecosistema italiano dopo anni all’estero? «Si è più pronti ad ascoltare gli imprenditori, ma va sistemata la mentalità. Quando c’è un round importante non è una sola azienda a vincere. Tutti possono beneficiarne».
Il prodotto Arke ci è stato descritto come un software «che permette alle attività manifatturiere di organizzare procurement, inventario, parte di vendita, gestione preventivi, campionatura. Esistono sul mercato software ma con tecnologia monolitica, che ti costringono a metter mano nel codice». Dalle Big Tech alle PMI, un bel salto. «Abbiamo deciso di concentrarci sull’industria manifatturiera. Cercavamo il problema da cui partire: tutte le aziende che abbiamo incontrato ci dicevano che il nodo da sciogliere sta nel flusso informativo, costantemente interrotto».
L’unicorno che ha in mente Andreolli è l’ambizione che tanti investitori cercano nei Founder. Da non confondere con arroganza. «Quando ho provato a raccogliere soldi la prima volta mi sono resa conto che il progetto non era da Venture Capital. È passato del tempo prima che decidessi su cosa lavorare. Voglio fare un unicorno, secondo me ce la faremo. E non significa raggiungere una super valutazione, ma rendersi conto che abbiamo trovato un problema così grande e così sentito che la soluzione avrà conseguenze».