Intervista esclusiva a Federico Frattini, professore di Strategia e Innovazione al Politecnico di Milano e co-autore del libro “Innovationship. L’innovazione guidata dal capitale relazionale”. «Il network è descritto come bene privato, ma in realtà ha valore collettivo. Oggi troppe startup si concentrano solo sul prodotto e poco sul networking»
«Il capitale relazionale è prezioso per reclutare un talento: accelero i tempi e riduco i costi. In Italia segnalare qualcuno spesso è interpretato come l’inserimento di una persona non valida. Credo sia tipico della cultura latina. Mentre in quella anglosassone non ci si preoccupa di farlo». Alle nostre latitudini resiste ancora l’idea della raccomandazione in senso negativo, intesa come corsia preferenziale per chi ha gli agganci giusti e riesce a superare chi avrebbe titoli e competenze migliori delle sue. Col tempo, tuttavia, questa lettura della realtà ha finito con lo sminuire il valore invece prezioso del network e l’investimento del proprio capitale relazionale per la crescita propria e altrui. Ne abbiamo parlato con Federico Frattini, professore ordinario di Strategia e Innovazione al Politecnico di Milano e Dean della POLIMI Graduate School of Management. Con Benedetto Buono, founding partner di Buono & Partners, ha scritto Innovationship. L’innovazione guidata dal capitale relazionale, edito da EGEA.
Potrebbe definire cosa intende per capitale relazionale?
Nel libro lo abbiamo inteso come l’insieme delle connessioni personali che un individuo o un’organizzazione detiene e che produce benefici individuali e collettivi dal loro utilizzo. È l’insieme delle relazioni a livello personale e che possono produrre benefici di varia natura.
In Italia una persona con un buon network non sempre viene però considerata in maniera positiva. Come se fosse un raccomandato
Senz’altro in altri contesti culturali non c’è questa accezione negativa dell’avere un capitale relazionale esteso e profondo. Anzi viene intesa come una qualità da sfruttare per realizzare progetti. Negli Stati Uniti l’aver coltivato e saper utilizzare il capitale relazionale a vantaggio dei propri scopi sono viste come capacità equiparabili all’aver studiato. In Italia, invece, resta questo connotato negativo perché si fa riferimento a un uso del capitale relazionale distorto.
Ci può fare un esempio di utilizzo del capitale relazionale?
Per reclutare un talento potrei utilizzare il capitale relazionale per accelerare i tempi, ridurre i costi, e trovare la persona migliore. L’accezione negativa in Italia, a mio avviso, deriva dal fatto che il capitale relazionale è stato spesso usato per far accadere cose che non erano al servizio del progetto. Nella cultura anglosassone non ci si preoccupa di segnalare qualcuno. Se parli con chi si occupa di queste tematiche in nord Europa, scopri che se segnali qualcuno non funzionale danneggi anzitutto te stesso.
Può descrivere un caso studio del libro che illustra efficacemente il potere del capitale relazionale nell’innovazione?
Nel testo sono citati tanti esempi che nascono dalle interviste che abbiamo condotto. Abbiamo scoperto che il capitale relazionale può essere valorizzato per accelerare e rendere più efficaci progetti di innovazione. Un conto è utilizzare il capitale relazionale per avviare il progetto di innovazione e, ad esempio, costruire il core team; un altro conto è usarlo quando il progetto entra nelle fasi di sviluppo; un altro ancora riguarda un’attività continuativa. In ciascuno di questi momenti sono diverse le cose da fare.
Cioè?
Il capitale relazionale di maggior valore è quello che ci lega a una persona con cui abbiamo una consuetudine, una conoscenza pregressa, vicinanza valoriale. Nelle fasi più avanzate di un progetto premia però di più la diversità, ovvero l’utilizzo e lo sfruttamento dei legami deboli.
Nel libro fate riferimento ai super connettori. Di che si tratta?
Sono figure professionali che fanno da nodi di un network. Fungono da ponte. Per ogni innovatore è utile avere una chiara mappa di quali siano i super connettori che permettono di aver accesso a bacini relazionali: è una parte fondamentale dell’approccio strategico. Ci sono super connettori rispetto a un’area geografica, oppure altri che danno accesso ad ambiti di relazioni settoriali. Sono la leva che permette di accelerare la costruzione. Purtroppo vedo tante realtà in Italia che non si chiedono quali siano i loro super connettori di riferimento.
A questo proposito: c’è l’online, con LinkedIn. Ma l’esperienza dal vivo resta centrale
Gli strumenti digitali hanno un grande valore nell’ampliamento orizzontale. Ma la direzione verticale, ovvero quanto è profondo il capitale relazionale, deriva dall’utilizzo di un canale di prossimità fisico. Secondo me servono tutti e due, ma soprattutto occorre una strategia di investimento e sul coltivare nel tempo le relazioni one to one partendo dai super connettori. Noto tantissime startup che dedicano molto tempo alla parte di sviluppo del prodotto ma molto poco al costruirsi un network relazionale di valore.
Quando si parla di relazioni in ottica costruttiva si parafrasa spesso Kennedy, per far capire l’approccio: chiedi anzitutto a te stesso cosa puoi fare per l’altra persona
Dalla nostra ricerca è emerso che, in materia di capitale relazionale, è più capace chi interpreta il proprio ruolo con una reciprocità di relazione. I veri networker che sanno usare le relazioni personali anzitutto si mettono a tua disposizione. È un presupposto di fiducia.
Occorre un Chief networking officer, ovvero un chief stakeholder officer potenziato come scrivete nel libro?
È una parte che ha stimolato la curiosità. Il capitale relazionale è sempre stato descritto come bene privato, ma in realtà dalle storie che abbiamo raccolto si scopre che ha un valore collettivo.