La società israeliana Cellebrite, che collabora anche con il governo statunitense, ha fornito all’FBI il software che ha permesso lo sblocco dello smartphone di Thomas Crooks, l’attentatore che pochi giorni fa ha cercato di uccidere Donald Trump durante un comizio a Butler (nella sparatoria è morta una persona). Finora non sono ancora chiari i motivi che lo hanno spinto a un simile gesto.
Cellebrite e il software per accedere al cellulare di Crooks
Come si legge su Bloomberg l’FBI ha dovuto chiedere il supporto di Cellebrite che ha consegnato un software ancora in via di sviluppo per accedere a un device modello Samsung. Ci sarebbero voluti circa 40 minuti per sbloccare il dispositivo. Secondo chi è al lavoro sul caso il cellulare potrebbe contenere informazioni preziose sull’attentatore, ucciso pochi secondi dopo che ha sparato contro il candidato repubblicano.
Grazie alle capacità del software, Cellebirite è in grado di produrre milioni di combinazioni di password per riuscire ad accedere a un dispositivo. Come si legge sulla stampa, in passato la società israeliana è finita al centro delle polemiche relative ai rischi di invasione della privacy, ma si è sempre difesa sostenendo di impiegare strumenti così potenti e invasivi in collaborazione con le autorità. Alcuni anni fa ha cessato le proprie attività in Cina e a Hong Kong.
Un precedente: San Bernardino
Il caso dello sblocco di dispositivi di proprietà di terroristi ha un precedente noto negli Stati Uniti. Nel 2015, a seguito della strage di San Bernardino in cui sono state uccise 14 persone, Apple si era rifiutata di concedere le chiavi di accesso dello smartphone dell’attentatore alle autorità. «Fin dall’inizio abbiamo contestato la richiesta dell’FBI di costruire una backdoor nell’iPhone credendo fosse sbagliato e un precedente pericoloso», si era difesa la Big Tech. Alla fine il Federal Bureau of Investigation aveva sbloccato il dispositivo senza coinvolgere la Mela morsicata. Con l’aiuto di quale azienda? In un primo momento sembrava coinvolta Cellebrite, fino a che il Washington Post non ha fatto un altro nome.