Dopo i fatti di Washington il dibattito si è spostato sul ruolo delle piattaforme. Intervista a Marco Sioli, esperto degli USA
«La violenza fa parte della storia degli USA. Gli Stati Uniti sono nati e si sono rigenerati nella violenza». A due giorni dai fatti di Capitol Hill – il numero dei morti è salito a cinque – Marco Sioli, docente di Storia dell’America del nord all’Università degli Studi di Milano ha dialogato con StartupItalia sulle condizioni di un paese diviso come non mai. «La protesta è nata ed è stata costruita sui social», ha commentato. Dopo un blocco temporaneo dei profili di Trump, il tycoon ha potuto pubblicare un breve video su Twitter in cui accetta ed esprime il proprio impegno per una transizione pacifica alla Casa Bianca, pur ribadendo il proprio impegno per far giustizia sul voto dello scorso novembre. Al momento, però, senza prove a sostegno della presunta frode elettorale che denuncia da mesi.
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Fonte: Wikipedia
Capitol Hill: fino a quanto vale la libertà di espressione?
«L’unico errore che ha fatto Joe Biden nel suo discorso è stato quello di chiedere a Trump di andare sulla national tv per ordinare lo stop alle violenze. Ma chi più ascolta la national tv? Tutto è online ormai», ha spiegato Sioli. In queste ore analisti e commentatori stanno ragionando sulla responsabilità dei social network che in tutti questi anni sarebbero stati complici di un dibattito pubblico sempre più tossico. L’attivismo delle piattaforme in queste ore – con i rumor sulle minacce di chiudere del tutto il profilo di Trump – appare tardivo.
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Se un tempo le piattaforme si ritenevano meri distributori di contenuti, difendendosi con il primo emendamento USA sulla libertà di espressione, oggi il dibattito si è spostato proprio su una regolamentazione necessaria. «La domanda da cui partire -ha concluso Sioli – è quando si può limitare la libertà di espressione: un esperto di Harvard sostiene che può rimanere finché tutto rimane a livello verbale. Ma va ostacolata quando degenera in violenza fisica».